di Carlo Musilli
Con l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, la premier britannica Theresa May non ha solo avviato l’uscita dell’UK dall’Ue. Ha anche aperto due contese interne che minacciano l’unità della stessa Gran Bretagna e che Londra dovrà gestire in contemporanea alle trattative con Bruxelles.
Il primo fronte è quello scozzese. Il 28 marzo, 24 ore prima che May avviasse la procedura per la Brexit, il Parlamento di Edimburgo ha approvato la richiesta del proprio governo di indire un nuovo referendum sulla secessione dal Regno Unito.
Nel settembre 2014 la prima consultazione sull’indipendenza da Londra si concluse con la vittoria degli unionisti (55 a 45 per cento). Ma oggi una riedizione del voto avrebbe probabilmente esito opposto, perché una delle ragioni che due anni e mezzo fa indusse la Scozia a non uscire dall’UK fu proprio la volontà di rimanere nell’Ue. Un proposito confermato al referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno, che a livello nazionale si concluse con un’affermazione di misura del “Leave” (52 a 48 per cento), ma fra i soli scozzesi vide una netta affermazione del “Remain” (62 a 38 per cento).
La nuova consultazione scozzese potrebbe essere usata da Bruxelles come strumento di pressione su Londra nelle trattative per la Brexit. May lo sa, per questo ha già lasciato intendere che il voto non si potrà tenere prima della conclusione del negoziato con l’Europa. In teoria, il governo britannico avrebbe anche il potere di proibire la consultazione. In pratica, se lo facesse, sconfesserebbe il principio della devolution che negli ultimi decenni ha contribuito a tenere insieme il paese.
Ma anche se riuscisse finalmente a votare in favore della secessione, per la Scozia i problemi non sarebbero finiti. L’uscita dal Regno Unito non comporterebbe automaticamente la permanenza nell’Ue, perciò il nuovo Stato dovrebbe avviare una procedura di adesione ex novo. Purtroppo per gli scozzesi, questo significa che sarebbe necessario il consenso tutti i 27 Stati membri dell’Unione, alcuni dei quali voterebbero certamente contro pur di non incoraggiare le spinte indipendentiste all’interno dei propri confini. Per la Spagna, ad esempio, sarebbe un suicidio consegnare un argomento di propaganda così potente nelle mani dei secessionisti catalani e baschi.
Molto diversa è invece la situazione sull’altro fronte interno aperto dalla Brexit. All’Irlanda del Nord, May ha assicurato che non intende revocare il diritto di spostarsi liberamente tra Sud e Nord dell’isola e che “non ci sarà un ritorno ai confini del passato”. Il problema è che la stessa Premier ha detto più volte di volere una “Hard Brexit”, opzione che prevede, fra l’altro, il controllo dell’immigrazione dall’Ue.
Ora, se la frontiera fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord rimanesse aperta, qualsiasi cittadino europeo potrebbe prendere un volo per Dublino e da lì un autobus per Belfast, ritrovandosi senza problemi sul suolo di Sua Maestà. Perciò, se la Gran Bretagna vuole davvero controllare i flussi migratori in entrata, non ha altra scelta se non chiudere il confine irlandese come al tempo della guerra civile.
Una decisione che avrebbe conseguenze pesantissime. Secondo i dati del governo irlandese, più di 10 mila persone vivono sul lato opposto della frontiera, che ogni mese viene attraversata da quasi due milioni di automobili. Il ripristino della dogana sarebbe un disastro per l’economia dell’isola, che si ritroverebbe in parte all’interno del mercato unico europeo e in parte fuori. Senza contare che la chiusura del confine potrebbe riaccendere le ostilità fra gli irlandesi fedeli al Regno e quelli che vorrebbero unirsi alla Repubblica.
Ma non basta: proprio in questi giorni l’Irlanda del Nord sta attraversando la crisi politica più grave della sua storia recente. Dopo le elezioni del 2 marzo, che hanno portato i repubblicani dello Sinn Fein a un solo seggio dagli unionisti del Dup, i due partiti non sono riusciti a trovare un accordo per la costituzione di un nuovo governo locale d’unità nazionale.
La ragione dello scontro è la stessa che ha fatto cadere il precedente governo: lo Sinn Fein non vuole che a ricoprire il ruolo di premier (destinato al partito che ha ottenuto più voti) sia la numero uno del Dup, Arlene Foster, coinvolta in uno scandalo di malversazione sulle energie rinnovabili. Questa era la posizione dell’ex leader repubblicano, Martin McGuinness, venuto a mancare pochi giorni fa. E la nuova leader dello Sinn Fein, Michelle O’Neill, non ha intenzione di cambiare linea.
Il caso politico però ha tutta l’aria di essere un pretesto. I due partiti hanno opinioni lontanissime sul programma di governo da adottare e soprattutto sulla gestione della Brexit. In scia agli scozzesi, anche i repubblicani nordirlandesi vorrebbero organizzare un referendum per chiedere agli elettori di abbandonare Londra e abbracciare Dublino. Come gli scozzesi, anche i nordirlandesi 9 mesi fa votarono per rimanere nell’Ue (56 a 44 per cento). Ma al contrario degli scozzesi, i nordirlandesi avrebbero davvero l’occasione di riuscirci, perché la Repubblica d’Irlanda fa già parte dell’Unione (e dell’Eurozona). Se cambiassero bandiera, rimarrebbero automaticamente nella famiglia europea. A quel punto la famiglia sarebbe al completo: mamma Brexit con le sue due figlie, Scoxit e Irexit.
Con l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, la premier britannica Theresa May non ha solo avviato l’uscita dell’UK dall’Ue. Ha anche aperto due contese interne che minacciano l’unità della stessa Gran Bretagna e che Londra dovrà gestire in contemporanea alle trattative con Bruxelles.
Il primo fronte è quello scozzese. Il 28 marzo, 24 ore prima che May avviasse la procedura per la Brexit, il Parlamento di Edimburgo ha approvato la richiesta del proprio governo di indire un nuovo referendum sulla secessione dal Regno Unito.
Nel settembre 2014 la prima consultazione sull’indipendenza da Londra si concluse con la vittoria degli unionisti (55 a 45 per cento). Ma oggi una riedizione del voto avrebbe probabilmente esito opposto, perché una delle ragioni che due anni e mezzo fa indusse la Scozia a non uscire dall’UK fu proprio la volontà di rimanere nell’Ue. Un proposito confermato al referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno, che a livello nazionale si concluse con un’affermazione di misura del “Leave” (52 a 48 per cento), ma fra i soli scozzesi vide una netta affermazione del “Remain” (62 a 38 per cento).
La nuova consultazione scozzese potrebbe essere usata da Bruxelles come strumento di pressione su Londra nelle trattative per la Brexit. May lo sa, per questo ha già lasciato intendere che il voto non si potrà tenere prima della conclusione del negoziato con l’Europa. In teoria, il governo britannico avrebbe anche il potere di proibire la consultazione. In pratica, se lo facesse, sconfesserebbe il principio della devolution che negli ultimi decenni ha contribuito a tenere insieme il paese.
Ma anche se riuscisse finalmente a votare in favore della secessione, per la Scozia i problemi non sarebbero finiti. L’uscita dal Regno Unito non comporterebbe automaticamente la permanenza nell’Ue, perciò il nuovo Stato dovrebbe avviare una procedura di adesione ex novo. Purtroppo per gli scozzesi, questo significa che sarebbe necessario il consenso tutti i 27 Stati membri dell’Unione, alcuni dei quali voterebbero certamente contro pur di non incoraggiare le spinte indipendentiste all’interno dei propri confini. Per la Spagna, ad esempio, sarebbe un suicidio consegnare un argomento di propaganda così potente nelle mani dei secessionisti catalani e baschi.
Molto diversa è invece la situazione sull’altro fronte interno aperto dalla Brexit. All’Irlanda del Nord, May ha assicurato che non intende revocare il diritto di spostarsi liberamente tra Sud e Nord dell’isola e che “non ci sarà un ritorno ai confini del passato”. Il problema è che la stessa Premier ha detto più volte di volere una “Hard Brexit”, opzione che prevede, fra l’altro, il controllo dell’immigrazione dall’Ue.
Ora, se la frontiera fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord rimanesse aperta, qualsiasi cittadino europeo potrebbe prendere un volo per Dublino e da lì un autobus per Belfast, ritrovandosi senza problemi sul suolo di Sua Maestà. Perciò, se la Gran Bretagna vuole davvero controllare i flussi migratori in entrata, non ha altra scelta se non chiudere il confine irlandese come al tempo della guerra civile.
Una decisione che avrebbe conseguenze pesantissime. Secondo i dati del governo irlandese, più di 10 mila persone vivono sul lato opposto della frontiera, che ogni mese viene attraversata da quasi due milioni di automobili. Il ripristino della dogana sarebbe un disastro per l’economia dell’isola, che si ritroverebbe in parte all’interno del mercato unico europeo e in parte fuori. Senza contare che la chiusura del confine potrebbe riaccendere le ostilità fra gli irlandesi fedeli al Regno e quelli che vorrebbero unirsi alla Repubblica.
Ma non basta: proprio in questi giorni l’Irlanda del Nord sta attraversando la crisi politica più grave della sua storia recente. Dopo le elezioni del 2 marzo, che hanno portato i repubblicani dello Sinn Fein a un solo seggio dagli unionisti del Dup, i due partiti non sono riusciti a trovare un accordo per la costituzione di un nuovo governo locale d’unità nazionale.
La ragione dello scontro è la stessa che ha fatto cadere il precedente governo: lo Sinn Fein non vuole che a ricoprire il ruolo di premier (destinato al partito che ha ottenuto più voti) sia la numero uno del Dup, Arlene Foster, coinvolta in uno scandalo di malversazione sulle energie rinnovabili. Questa era la posizione dell’ex leader repubblicano, Martin McGuinness, venuto a mancare pochi giorni fa. E la nuova leader dello Sinn Fein, Michelle O’Neill, non ha intenzione di cambiare linea.
Il caso politico però ha tutta l’aria di essere un pretesto. I due partiti hanno opinioni lontanissime sul programma di governo da adottare e soprattutto sulla gestione della Brexit. In scia agli scozzesi, anche i repubblicani nordirlandesi vorrebbero organizzare un referendum per chiedere agli elettori di abbandonare Londra e abbracciare Dublino. Come gli scozzesi, anche i nordirlandesi 9 mesi fa votarono per rimanere nell’Ue (56 a 44 per cento). Ma al contrario degli scozzesi, i nordirlandesi avrebbero davvero l’occasione di riuscirci, perché la Repubblica d’Irlanda fa già parte dell’Unione (e dell’Eurozona). Se cambiassero bandiera, rimarrebbero automaticamente nella famiglia europea. A quel punto la famiglia sarebbe al completo: mamma Brexit con le sue due figlie, Scoxit e Irexit.
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