Da lungo tempo, ormai, si trascina nel cattolicesimo la questione del "non indurci in tentazione" della più profonda e straordinaria delle preghiere: il Padre Nostro. Da quando, all'indomani del Concilio Vaticano II, si è deciso di far recitare il Pater in italiano, diversi teologi sono intervenuti sulla questione. Recentemente, lo stesso papa Francesco si è espresso, sollecitando una riformulazione in italiano della frase, con qualcosa del tipo "non lasciare che siamo indotti in tentazione" o "non abbandonarci alla tentazione". Tuttavia, queste formule tradiscono il senso letterale sia del testo greco, che di quello latino: καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν; et ne nos inducas in tentationem. Nei due testi originari è, infatti, chiaro che si tratta proprio del "e non indurci in tentazione" dell'attuale, fedele, versione. Si deve pensare che la traduzione in italiano del Pater ha reso evidente una questione, presente sia nella preghiera in latino, che in quella più originaria in greco, ma di cui non c'era sufficiente e diffusa consapevolezza, finché il popolo aveva recitato questa preghiera in un latino ormai quasi del tutto sconosciuto. Tuttavia, la versione proposta, che introduce i verbi lasciare o abbandonare, in virtù del fatto che il ruolo del tentatore non è di Dio Padre, ma di un altro, crea una questione ancora più grave di quella che si vuole evitare: può il Padre Celeste lasciare che un'anima sia abbandonata al Tentatore? E quand'anche fosse possibile, il Padre Nostro può intendere questo, se è vero, com'è vero, che a recitarlo è un fedele? Ci può essere agli occhi di un credente un solo istante in cui Dio abbandoni, lasciando che il male avvenga, senza che ciò sia ricompreso in un più ampio quadro salvifico? "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt. 26, 39). Gesù prega il Padre nel Getsemani, assolutamente consapevole che l'orrore della sua passione, crocifissione e morte, che lo attende da lì a poco, è voluto dal Padre e che quindi lo stesso Tentatore non può sottrarsi alla onnipotenza divina. Altrimenti, avremmo un dualismo di principi, che non appartiene al cristianesimo. Dire "non indurci in tentazione", d'altra parte, non significa dire non tentarci, e non significa neppure dire non lasciare, non abbandonare. Significa, invece, "non volere" e quindi non indurci in tentazione, a una dura prova, come quella sopportata da Giobbe o dallo stesso Cristo. "Non lasciare che siamo indotti in tentazione" o "non abbandonarci alla tentazione" sono formule che nascondono già una delle più grandi tentazioni: dubitare che tutto, anche la prova, anche la tentazione, possa rientrare nell'imperscrutabile volontà di Dio, e che colui che ama Dio, possa abbracciare la sofferenza e la croce in una perfetta letizia, fino a chiamare la stessa morte corporale "sorella". Follia della croce, che oggi sembra sempre più incomprensibile, ma che non per questo è meno sublime!
Massimo Frana
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