Con Julianne Moore, Michelle Williams, Oakes Fegley, Corey
Michael Smith, Jaden Michael, Millicent Simmonds, Raul Torres, Amy Hargreaves, Marko
Caka, Tom Noonan, USA del 2017. Musiche di Carter Burwell, coordinamento
musicale di Ian Herbert. Fotografia di Edward Lachman, costumi di Sandy Powell.
The wonder-city
“La
stanza delle meraviglie” è stato definito un film-diorama, è appagante e
commovente, una specie di fiaba malinconica raccontata in modo delicato e
raffinato. Il regista Todd Haynes è famoso per creare atmosfere particolari e
per la sua capacità di trasmetterle. Tanto per citare due suoi film che mi sono
piaciuti molto, vorrei ricordare “Carol”
del 2015, con Cate Blanchett e Rooney Mara,
che è impregnato di un’atmosfera di grande sensualità, pieno di riflessi urbani
quando in città e di foglie specchiate nei vetri dell’auto quando in campagna, e
“Lontano dal paradiso” del 2002, con
la sua attrice-musa Julianne Moore, che è ambientato negli anni ’50 e dove è
dipinta la suburbia e dove sono
mostrati tutti i colori stagionali della natura del Connecticut. Qui, in questo
film, il regista è alle prese con l’adattamento di un testo di Brian Selznick
Haynes, che ne è anche lo sceneggiatore.
A
New York, una bambina (l’attrice-rivelazione Millicent Simmonds) e un bambino (il
bravissimo Oakes Fegley), entrambi scappati da casa, cercano, in parallelo, i
genitori. Sono entrambi sordi, per ragioni diverse. Rose è sordomuta dalla
nascita e passa le sue giornate a ritagliare articoli sui giornali che parlano
della mamma attrice Lillian Mathew (interpretata da Julianne Moore). Ben invece
è stato colto da un fulmine che gli ha tolto la possibilità di sentire suoni e
voci e passa il suo tempo rovistando tra i cassetti e le carte della madre Elaine
(Michelle Williams), per cercare indizi che lo conducano a conoscere qualcosa
di suo padre.
Rose
vive con il padre - siamo nel 1927 – separato dalla moglie, è in cerca della madre,
un’affascinante e nota attrice che sta recitando al Promenade Theater di Broadway. Ben invece è in cerca di suo padre –
siamo esattamente cinquant’anni più tardi - di cui non ricorda quasi nulla e
del quale sa pochissimo – «era un’astronauta mio padre?»
chiede inutilmente Ben - e tenta di trovare informazioni in una vecchia
libreria vicino al Museo di Storia Naturale su Central Park West a Manhattan.
Il
film è pieno di riferimenti cinematografici nelle due storie, sovrapposte nel
montaggio dei fotogrammi: naturalmente in bianco e nero con sottofondo di
musica sinfonica – come nei film muti - la storia della bimba in cerca di
quell’affetto che solo il fratello Walter (Corey Michael Smith) le saprà dare;
a colori e accompagnata da musica funky
anni ’70 (coordinatore musicale Ian Herbert) la storia del bambino rimasto
orfano di madre e alla disperata ricerca di conoscere il padre. Così cantava
David Bowie in Space Oddity: «…ashes to ashes, funk to funky, Major Tom was
just a junkie». Invece, l’uso di Also
Spracht Zarathustra di Richard Strauss nel finale, è un esplicito omaggio a
Stanley Kubrick e al suo “2001 Odissea
nello spazio”.
Ben
è nato e cresciuto a Gunflint in Minnesota, sul lago omonimo al confine con il
Canada, è abituato al freddo e alla neve ma non alla città, specialmente se
questa città si chiama New York. Altrettanto vale per Rose che viene da una
zona suburbana ricca del New Jersey, ma non conosce la metropoli. Così Todd
Haynes ci fa scoprire il tessuto urbano (e sociale) attraverso gli occhi dei
bambini - la camera è proprio a quella altezza! - maggiormente aperti non
avendo più l’udito. Secondo Marshall Mc Luhan il regista D. W. Griffith, quando
girava in esterni, portava sempre con sé una copia di David Copperfield dove aveva fatto una grande scoperta tecnica, per
la prima volta il mondo si era dispiegato realisticamente visto dagli occhi di
un ragazzo che assumono così la funzione di una macchina da presa.
La
New York in bianco e nero è una città in fieri, quasi in costruzione, lì si fa
spettacolo (i teatri di Broadway) e lì si fa cultura (i Musei e le librerie).
Ma negli anni ’70 New York è al massimo del suo splendore, è la più grande
città che in qualche modo si possa ancora considerare “europea”, ed è lì che si
può trovare massimo di tutto: i migliori direttori d’orchestra (Leonard
Bernstein), i migliori locali di jazz (il Village
Vangard), i migliori architetti al M.O.M.A. (i Five Architects) e così via.
Rose
per raggiungere Manhattan prende un traghetto, dove rischia di perdere il
ritaglio di giornale con l’indirizzo del teatro. Ben, scappato dall’ospedale
dove è stato ricoverato dopo l’incidente del fulmine, prende prima uno school-bus, poi un railbus che lo fa sbarcare ad Harlem, il quartiere nero che attraverserà
senza soggezione. Le due ricostruzioni di New York, in due diverse epoche, sono
scrupolose e attente. In particolare, nel periodo degli anni ’70, Todd Haynes
ne ripropone le musiche, i vestiti
colorati, i capelli e i vestiti alla moda (grazie anche alla costumista Sandy
Powell). Le due storie trovano il loro fulcro nel Museo di Storia Naturale e si
sovrappongono a quella di uno splendido cabinet
of curiosities, una volta lì, infatti, tutti i musei discendono dalle Wunderkammer, collezioni di oggetti
bizzarri.
Il
regista va avanti e indietro tra fantasia, sogno (o incubo) e desiderio, con
molto garbo e senza appesantire o complicare la storia, o meglio le storie, che
man mano si dipanano fino ad incontrarsi nel finale.
Un
ennesimo tributo alla città viene dal modello analogico in scala 1:200, detto “Panorama”,
costruito per l’Expo Internazionale del 1964 (New Year World’s Fair), voluto dal
famoso urban planner Robert Moses e
conservato al Queens Museum – museo d’arte e centro educativo fondato nel 1972
all’interno del Flushing Meadows Corona Park (che a sua volta è famoso per lo US Open di tennis) - dove convergono alla
fine tutte le vite incontrate, quella di Rose, di Ben e del suo amichetto
portoricano Jamie.
I
critici di Cannes non sono rimasti entusiasti di questo film. Credo che lo
abbiano paragonato troppo drasticamente a “Hugo
Cabret” diretto da Martin Scorsese nel 2011, tratto sempre da un libro dello
stesso romanziere Brian Selznick. A me “La
stanza delle meraviglie” ha evocato altri film, ma soprattutto “A.I.” girato da Steven Spielberg nel
2001 su un’idea di Stanley Kubrick, e dove il piccolo protagonista, in cerca di
affetto familiare, si ritrova in una grande metropoli che forse è la vera
“stanza delle meraviglie”. Probabilmente “Wonderstruck“
non è il miglior film di Todd Haynes in assoluto, ma vale la pena di vederlo se
non altro per la sua confezione, per le tecniche delle scene ambientate negli
anni ’20, e per le sue ricostruzioni storiche e urbane e degli ambienti
museali, che sono veramente degne di nota.
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