21 giugno 2018

ZINGARO, VOGLIO VIVERE COME TE




Una vecchia canzone di Umberto Tozzi del 1978 cantava "Zingaro, voglio vivere come te", esaltando lo spirito libero degli zingari, che incarnava il desiderio stesso di libertà di quegli anni. Quella canzone e quel desiderio sembrano così lontani da noi.
Nel 2009 insegnavo italiano in una scuola media di Roma. In una terza avevo come alunna una ragazza rom. Un suo tema fu per me fonte di ispirazione per un articolo che venne pubblicato sullo storico giornale Avanti, il 18 giugno del 2010. In quell'articolo, parlavo dei cosiddetti "diversi esistenziali", e ponevo a confronto zingari, ebrei, gay, e neri d'America, rifacendomi ad uno straordinario libro di Hans Meyer, "I diversi", degli anni Settanta del Novecento. Sottolineavo, poi, come , rispetto ai diversi di cui parla Mayer, fosse attualmente possibile individuarne altri: i migranti, per i quali si poneva la questione se fossero diversi esistenziali o diversi intenzionali, ma che, comunque, sono "diversi". Ricordavo, infine, come  dopo una lezione, in cui mi ero soffermato su quanto sostiene Dahrendorf circa la necessità dell'immigrazione e sul perché bisognerebbe ringraziare gli immigrati, quella ragazza rom, M., decideva di scrivermi e di raccontarmi della sua famiglia, che dalla Romania per bisogno si era trasferita in Italia, a Roma, di sua madre che, quando lei aveva ancora otto anni, la portava, insieme alle sue sorelle, davanti a un supermercato a chiedere l'elemosina: "Prof, ti svelo un mio segreto. Mi ricordo - scriveva M. - come mia madre piangeva davanti a me, dicendomi che si stava umiliando davanti agli altri, insieme a noi. Io le dicevo: mamma non piangere, tu già fai tanto per noi. Quale altro genitore avrebbe avuto il coraggio di mettersi lì seduto, non conoscere nessuno ed aspettare un'offerta?". Con i genitori e le sorelle, M. ha vissuto per un periodo in baracche, in condizioni di disagio estremo. Chiedere l'elemosina, continua M., non è però la stessa cosa che rubare. Quando mi scrive, i genitori di M. hanno trovato un lavoro e un posto migliore dove vivere:  il padre fa l'operaio, la madre fa la badante di una signora di novantatre anni. M. ci tiene a scrivermi che i suoi non hanno rubato il lavoro a nessuno: "A quale italiano, anche non laureato, andrebbe bene di stare con una signora che non ragiona più e non si rende conto delle azioni che compie, tutto il giorno, senza un contratto? Questi lavori li fanno solo gli stranieri". M. conclude  dicendo che comunque non ci sono lavori umilianti o "sporchi": ogni lavoro ha la sua importanza e richiede impegno.  "Spero - si augura infine la giovane M. - che le cose cambino, perché siamo tutti uguali e apparteniamo allo stesso mondo".  Ho incontrato M., a distanza di quasi un anno, nel 2010, in una gelateria della Magliana, a Roma. Mi ha salutato e mi ha parlato della sua vita dopo la licenza media. Si era sposata, nonostante i suoi diciassette anni, perché, mi disse, le ragazze rom si sposano molto giovani. Non vestiva più all'occidentale, come l'anno prima, ma aveva splendidi orecchini, collane e bracciali, abiti lunghi dai colori vivi, tipici delle donne rom. Era con delle sue amiche che vestivano allo stesso modo. Ricordo che M. diceva l'anno prima di voler proseguire negli studi, convinta che in tal modo avrebbe potuto offrire ai suoi genitori una vita ancora migliore. Non lo ha fatto. Credo abbia trovato alla fine il modo per vivere pienamente a Roma la sua diversità, o meglio differenza esistenziale. Rimane, concludevo nel mio articolo, tutto il problema, per una democrazia come la nostra, di trovare un orizzonte comune di valori nel quale possano collocarsi e avere un significato condiviso personali sintesi e scelte di vita come quelle di M. Sintesi che arricchiscono e che vanno valorizzate e rispettate in una società che non deve chiudersi, ripiegarsi in una omologazione che annulli le differenze, ma rimanere aperta.

Massimo Frana


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