Con Rita Hayek, Adel Karam, Kamel El Basha, Diamand Bou Abboud, Camille Salameh, Christine Choueiri, Libano, Francia, Usa, Belgio del 2017. Musica di Èric Neveux, montaggio Dominique Marcombe. Sceneggiatura di Ziad Doueiri e Joelle Touma.
Beirut è una città colta e cosmopolita che mi ha sempre affascinato. Negli anni ho avuto modo di conoscere, in diverse parti del mondo, vari libanesi che più volte danneggiati e bombardati, hanno sempre avuto la forza di reagire, di ricominciare da capo con forza e determinazione. Dicevano che il Libano era considerato un po’ come la “Svizzera del Medio Oriente”. ”L’insulto“ mostra la città di Beirut che sta tentando di rinascere dopo anni e anni di complicate guerre civili (1975/90) che hanno lasciato 150.000 morti e la distruzione della capitale, teatro dei vari conflitti. Ciononostante nelle periferie multietniche non si vive bene, ancora oggi le fazioni religiose e politiche sembrano vivere sui carboni ardenti. Molti partiti populisti fomentano le differenze e le diseguaglianze (come ovunque nel resto del mondo, purtroppo). Nell’ottobre del 2016 è eletto il Presidente maronita Michel Aoun e il film inizia con la partecipazione di Toni Hanna (il bravissimo Adel Karam), un libanese cristiano, a una manifestazione del Partito di Bashir Gemayel, il leader politico assassinato nel 1982, esponente di una dinastia politica ancora attuale ma separata in diverse fazioni al suo interno. Una sciocca questione di un tubo di scarico fuori norma, fomenterà una diatriba tra Toni e Yasser Abdallah Salameh (l’attore di teatro Kamel El Basha), un ingegnere palestinese che lavora come capocantiere in una ditta di costruzioni. L’escalation del conflitto passa da violenza verbale a violenza fisica, coinvolgendo man mano sempre più persone e diventando un simbolo del razzismo e di regolamento di conti tra culture e religioni, infine un caso nazionale.
Il film è interessante e intenso, però verso il finale diventa un po’ troppo educativo. Il tema è di estremo interesse, l’azione è portata avanti con un bel ritmo, è ben spiegata la spirale della violenza e di come da un piccolo banale episodio possa amplificare la rabbia fino a rischiare di far nascere una nuova guerra civile. Le donne nel film sono presentate più sagge e meno impulsive dei loro uomini, anche se non riescono ad incidere più di tanto sui comportamenti irresponsabili e inspiegabili dei loro mariti. Shirine Hanna (Rita Hayek), la bella moglie di Toni, tenta inutilmente di farlo ragionare, mentre Nadine Wehbe (Diamand Bou Abboud già notata in “Insyriated” di Philippe Van Leeuw), la bravissima avvocatessa della difesa è addirittura la figlia dell’astuta volpe, sua controparte, l’avvocato Wajdi Wehbe (Camille Salameh) cui tiene testa per tutto il processo - ma non esiste un conflitto di interessi tra accusa e difesa??
Il regista conclude la vicenda con una sua speranza di pace, un desiderio di solidarietà che non lascia spazio all’immaginazione del spettatore. Così scrive Francesco Boille in “Internazionale”: «Non ci può essere perdono e quindi riconciliazione senza assunzione di responsabilità reciproca – perché tutti hanno colpe e giustificazioni – e senza conoscenza storica e comprensione piena del dolore immenso che fa covare questa rabbia insensata e perenne dell’orgoglio, della frustrazione».
Per analogia sul ruolo delle immagini – statiche o in movimento - vorrei riportare le parole di Paolo Pellegrin, famoso fotogiornalista della Magnum, che in una conferenza stampa alla domanda “Se una foto può cambiare la storia” ha risposto così: «Io non credo di potere cambiare la testa a nessuno, e non è questo il compito che mi sento addosso. Io voglio far parte di un mondo dove le fotografie entrano in un circuito sociale, cariche di informazioni e di emozioni, acquistano nel loro vagare anche una vita propria, possono incontrare persone e coscienze e far nascere qualcosa. Una fotografia non è un'ideologia che stravolge le menti, è un seme: se sposta qualcosa lo fa piano, crescendo dentro chi la guarda. A questo credo ancora, lo dico da fotografo ma anche da lettore, perché nessuna fotografia esiste davvero se non incontra una coscienza che la accoglie e la completa».
La sceneggiatura di questo film il regista l’ha scritto con la sua ex-moglie e addirittura con la consulenza della madre avvocatessa. Ziad Dueiri avrebbe voluto un processo con la giuria popolare all’americana, che non esiste in Libano, allora sua madre gli ha suggerito il processo con un collegio giudicante a tre magistrati. Un altro elemento che può ricordare la cinematografia americana è l’obbligatorio scazzo tra i due protagonisti maschili, come due bravi cow boys prima di fare amicizia. Ziad Dueiri, che aveva esordito a Cannes nel 1998 con “West Beyrouth”, al suo quarto lungometraggio, ha vinto con “L’insulto” l’Oscar 2018, quale miglior film in lingua straniera. Con l’attore Kamel El Basha (primo attore arabo a ottenere questo premio) ha invece vinto la Coppa Volpi alla 74ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Al suo rientro in Libano, a causa del suo precedente film “The Attack”, è stato arrestato perché accusato di collaborazionismo con Israele, poi processato e prosciolto.
Ghisi Grütter
Nessun commento:
Posta un commento