8 luglio 2018

Recensione Opera Lirica :LA TRAVIATA di Giuseppe Verdi con la regia di Lorenzo Mariani e la direzione di Yves Abel






Con Kristina Mkhitaryan, Alessandro Scotto di Luzio, Fabiàn Veloz, Irida Dragoti, Rafaela Albuquerque, Roberto Accurso. Costumi di Silvia Aymonino, scene di Alessandro Camera, luci di Roberto Venturi, coreografia di Luciano Cannito, video di Fabio Iaquone e Luca Attili.







Giovedì scorso alle Terme di Caracalla, ho avuto la fortuna di avere un posto in quinta fila per assistere alla rappresentazione de La Traviata di Giuseppe Verdi, con la regia di Lorenzo Mariani e la direzione del maestro Yves Abel. L’archeologia antoniniana - e cioè i resti dell’edificio costruito sulle pendici del Piccolo Aventino tra il 212 a. C. e il 216 d. C. - da sola basterebbe a fare spettacolo. Infatti, il regista Lorenzo Mariani così afferma: «L’opera a Caracalla è magnifica, ma da regista è un’impresa titanica far dialogare la macchina scenica con uno dei monumenti più imponenti al mondo. Impossibile gareggiare con la sua bellezza, l’unica cosa da fare è inglobarla nello show».

Mariani nel 2014, aveva già allestito “Il Barbiere di Siviglia” per il Teatro Costanzi, con una rappresentazione definita dai critici, in stile hollywoodiano. Qui il regista ha avuto l’idea di trasporre la vicenda dalla metà dell’Ottocento alla fine degli anni Cinquanta e inizio Sessanta del secolo scorso, in un ambiente che ricorda più una Via Veneto felliniana che un boulevard haussmaniano parigino, anche se il regista afferma che voleva rappresentare una Parigi “rutilante e feroce” con la spietata crudeltà dei fotografica sempre in cerca di uno scoop da immortalare. Al posto dei corsetti ottocenteschi, infatti, troviamo i paparazzi, le feste scatenate e senza freni, le gonne a pois, grazie ai costumi di Silvia Aymonino, alle coreografie di Luciano Cannito e alla scenografia simbolico-minimalista di Alessandro Camera. Fondamentale è il ruolo delle luci di Roberto Venturi, con il gioco sapiente di proiezioni sulle rovine stesse (“inglobate nello show”, appunto), di gigantografie dei protagonisti, e dei flash dei paparazzi.

Mi è piaciuta la regia di Lorenzo Mariani anche per l’idea brillante di fare dei continui riferimenti alla cinematografia di quell’epoca, in particolare alla “Dolce vita” di Federico Fellini del 1960 e a “Vacanze Romane” di William Wyler del 1958. Invece, per il senso di perdizione e il clima festaiolo della scena della festa a casa di Flora Bervoix, il regista si deve essere ispirato al più recente “Moulin rouge” di Baz Luhrmann del 2001 che, infatti, aveva vinto tra i vari Oscar 2002, quelli per i migliori costumi e le migliori scene. L’omaggio al cinema è esplicito fin dalla prima scena nell’immagine sul telo di sfondo, manifesto del film nel quale recita Violetta Valery (la soprano russa Kristina Mkhitaryan): un tributo a Marylin Monroe, icona della donna “traviata” per antonomasia. Ma i riferimenti al cinema sono anche per “Grease - Brillantina” di Randal Kleiser del 1978 (con i costumi di Albert Wolsky), e in una scena, perfino alla “Notte dei morti viventi” di George A. Romero del 1968, come mi faceva notare la mia esperta compagna di spettacoli.

Il libretto dell’opera verdiana è di Francesco Maria Piave, tratto da “La signora delle Camelie” di Alexandre Dumas figlio, scritto l’anno prima nel 1852, ed è la storia di una donna frivola, in questo caso un’attrice che s’innamora profondamente di Alfredo Germont (Alessandro Scotto di Luzio) e per lui rinuncia alla sua vita mondana. Vanno a vivere insieme e si ritirano in una casa in Provenza (Di Provenza il mare il sol…) – qui il regista l’ha trasposta sul mare – quando il padre di Alfredo (Fabiàn Veloz) - di nascosto da lui - viene a supplicare Violetta per farle lasciare suo figlio, poiché il loro rapporto danneggia la reputazione della giovane sorella (Pura siccome un angelo….). Violetta in lacrime (Piangi fanciulla piangi) e nella sua generosità, accetta di lasciare l’adorato Alfredo e, per fargli credere di non amarlo più, si rifugerà nelle braccia del Barone Douphol (Roberto Accurso). La scena della festa nella casa dell’amica di Violetta è la più fastosa, si balla, si beve e si gioca. Qui Lorenzo Mariani si diverte a trasporre la danza delle zingarelle in un erotico burlesque di veline e quella degli uomini in una sorta di spogliarello dei Centocelle Nightmare (i Bulls). Alfredo gioca a carte e arriva Violetta con il Barone, ne nasce una lite dove i due pretendenti si sfidano a duello e Alfredo, avendo vinto al gioco, davanti a tutti dà i soldi alla sua ex amante dicendo: «…che qui pagata io l’ho». L’ultimo atto celebra le ultime ore di vita della Traviata, malata di tisi, che almeno ha la soddisfazione di riabbracciare in punto di morte il suo amato Alfredo che, saputo dal padre del suo sacrificio, le chiede perdono e le prospetta un futuro insieme (Parigi o cara), inutilmente. Qui Violetta e Alfredo cantano il duetto finale appoggiati sulla vespa, quale citazione di Audrey Hepburn e Gregory Peck nel film sopracitato “Vacanze Romane”. La scena è una rovina post-moderna che fa il verso alla Venere degli stracci di Pistoletto, con il telo-manifesto strappato e usato quasi come sudario. I paparazzi arrampicati sulle strutture metalliche sembrano gufi spietati che vogliono captare l’immagine della sua morte (un riferimento casuale a Lady D?).

Certo l’acustica delle terme di Caracalla è un grosso handicap per i cantanti e i musicisti, comunque la soprano ha cantato bene e ha una buona tenuta di scena, abbastanza bene il baritono, un po’ meno mi è parso il tenore.

Mi permetto una notazione a margine. Erano più di trent’anni che non andavo alle Terme di Caracalla per uno spettacolo, dai tempi in cui era d’obbligo rappresentare l’”Aida” con i cammelli e i fumi colorati. All’epoca si diceva che fosse “un’americanata!” attribuendo a questo termine un’accezione negativa. Adesso forse si rimpiangono gli spettatori americani, sostituiti da umanità varia dei vari paesi, dall’Est europeo, alla lontana Cina, al Sud America, tutti vestiti in abbigliamento casual. E come nella migliore tradizione - si ascolta l’Opera togliendosi le scarpe, bevendo bibite (ricordate il film “Amadeus” di Milos Forman del 1984?) o da nuova usanza con lo smartphone aperto – e ciò non è affatto un’esclusiva degli stranieri! Sono comunque contenta di vedere come il melodramma italiano sia apprezzato a tutte le latitudini e longitudini nel mondo.


6 luglio 2018

Ghisi Grütter

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