15 luglio 2018

Recensione film : L'ISOLA DEI. CANI regia di Wes Anderson




Musica di Alexandre Desplat, fotografia di Tristan Oliver, montaggio di Edward Bursch, Ralph Foster e Andrew Weisblum.


In questa estate romana molte sale cinematografiche propongono delle rassegne: ogni giorno è proiettato un film diverso già uscito quest’anno, dando la possibilità a chi non l’abbia visto di recuperarne la visione. È appunto il caso di questo delizioso film di Wes Anderson, un regista che continua a stupirci per il suo sperimentare vari generi differenti. Lo ricordiamo nella regia de “I Tannenbaum” del 2002, una sorta di storia a fumetti dei membri di una famiglia che si riuniscono dopo tanti anni che hanno vissuto separati, in quella di “Le avventure acquatiche di Steve Zissou” del 2005, la storia di un ricercatore e regista di documentari marini che si mette a caccia dello squalo-giaguaro che ha divorato il suo migliore amico, e in “Grand Budapest Hotel” del 2014 che presenta una serie di storie a scatole cinesi che attraversano il secolo scorso, narrate dal concierge dell’albergo mitteleuropeo.
“L’Isola dei cani” è stato presentato al Festival di Berlino del 2018, dove ha vinto l’Orso d’Argento per la miglior regia, è un film distopico di animazione in stop motion ed è ambientato in un prossimo futuro (2037) in Giappone, in particolare sull’isola dei rifiuti, dove uomini e cani antropomorfi convivono. Per animazione stop motion s’intende l’insieme di foto di figure tridimensionali mosse manualmente fotogramma dopo fotogramma. Viene posizionata la figura, si scatta una foto, la si muove, si scatta un’altra foto e così via un migliaio di volte. In “Isle of Dogs” ha lavorato Andy Gent (già collaboratore di Anderson per “Grand Budapest Hotel”) e il suo team, costruendo tutti i pupazzi e ci sono voluti ventisette animatori e dieci assistenti. Wes Anderson, in effetti, aveva già girato un film d’animazione nel 2009, il “Fantastic Mr. Fox” tratto da un racconto di Roald Dahl, dove i contadini (cattivi) cercano di liberarsi della furba volpe (doppiata da George Clooney) e della sua famiglia che vivono dentro un grande albero in cima a una collina.
Ne “L’Isola dei cani” il perfido Sindaco di Megasaki – città capitale dell’arcipelago giapponese – è un gattofilo che tenta di sterminare la razza canina incolpandola di pandemia. A tale scopo ha indotto un’influenza canina e ogni cane ammalato viene deportato lì, sull’isola dei rifiuti. Lo scienziato, il Prof. Watanabi e la sua assistente hanno trovato il vaccino (o meglio l’antidoto) ma lui viene messo agli arresti domiciliari e poi avvelenato, facendolo sembrare un suicidio.
Il Sindaco (Nomura Kunichi) è lo zio di Atari Kobayashi (Koyu Rankin), un bambino di dodici anni rimasto orfano, al quale è stato dato un cane-guardia del corpo di nome Spots (Liv Schreiber). Una volta ammalatosi anche lui, il bambino si recherà sull’isola alla sua ricerca con un piccolo aereo monoposto, un Junior Turbo Prop. Lì farà conoscenza di cinque cani simpatici che lo aiuteranno nella ricerca. Molti bravi e noti attori americani hanno prestato le loro voci ai cani: Chief è doppiato da Bryan Cranston, Rex da Edward Norton, Boss da Bill Murray, Duke da Jeff Godblum e King da Bob Babalan. Ma vi sono ancora altri importanti attori come Scarlett Johansson (Nutmeg), Frances McDormand (l’interprete Nelson), Tilda Swinton (Oracle), F. Murray Abraham (Jupiter), Harvey Keitel (Gondo). Il divertente gruppetto dei cinque cani ricorda dei vitelloni di provincia che amano i pettegolezzi ed hanno al loro interno una certa competitività di leaderismo, anche se la loro è una democrazia applicata che si contrappone alla dittatura del Sindaco (a quanti nuovi leader attuali assomiglia!).
La vicenda a lieto fine è piuttosto prevedibile: Chief il randagio che morde, non solo avrà anche lui un padroncino affettuoso, ma ritroverà pure un fratello. Sia lui, sia suo fratello maggiore Spots, troveranno l’amore della vita e diventeranno padri. Atari, a sua volta, si fidanzerà con Tracy Walker la bambina saputella dell’Ohio (Greta Gerwig), che, da brava giornalista d’inchiesta, ha portato avanti le battaglie degli studenti che hanno fatto cadere il Sindaco e svelare l’imbroglio. Un fatto interessante è che solo i cani parlano una lingua comprensibile (inglese o italiano se doppiato) e hanno emozioni antropiche, mentre le persone Wes Anderson le fa parlare nel meno conosciuto giapponese - infatti ci sono i traduttori - per creare un’alterità ribaltata tra cani e umani.
Il film ha un gusto minimalista, così come suggerisce la cultura Zen, e ci induce a pensare. L’ambientazione è particolarmente curata, l’isola è ben raccontata nella sua morfologia e progettata con un design elegante e dettagliato anche negli scarti. Un’ambientazione analoga si era vista, forse, in un altro film stop-motion “Wall-E” realizzato dalla Pixar Animation Studio nel 2008. Ne “L’Isola dei cani” la visione del futuro, come spesso nella fantascienza, ha molte notazioni retrò che lo fa assomigliare qua e là ad ambienti vecchi di mezzo secolo.
Ciò che mi è piaciuto molto del film è la messa in evidenza della contraddizione giapponese fra tradizione e innovazione (in particolare tecnologica). Un esempio lo si percepisce nel balletto funebre in memoria del bambino creduto morto, alternato nel montaggio alle scene delle costruzioni-invenzioni di Atari alla riscossa con tutti i cani.
Wes Anderson ha lavorato alla sceneggiatura assieme ai suoi abituali collaboratori (anche se la sceneggiatura è firmata solo da lui): Roman Coppola e Jason Schwartzmann e con la consulenza dell’attore giapponese Nomura Kunichi già interprete di “Grand Budapest Hotel”. Inoltre, lo stesso regista afferma di essersi ispirato ai film di Akira Kurosawa. La figura di Ataki, come alcuni critici hanno riscontrato, è una mediazione tra il cinema di Hayao Miyazaki (il re dell’animazione giapponese) e il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry.


Ghisi Grütter

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