9 febbraio 2018

Il lavoro prima e dopo l’algoritmo

 
            “si può vivere solo da guerrieri……… il guerriero è colui che vive ai confini della consapevolezza del terrore di essere uomini e della meraviglia di essere uomini …….   la differenza fra il predatore e la preda è che la preda è prevedibile”.  Don Juan Matus, stregone yaqui a Carlos Castaneda in “a scuola dallo stregone” e altri scritti.
 
Premessa: perché leggere questo libro. 
 
            “Dio è morto, Marx è morto, e neanche io mi sento tanto bene”. Questa celebre battuta, in realtà dalla incerta attribuzione, riassume, verso la fine del secolo scorso, il sentimento dei tempi che stavano maturando. Dio retrocede sotto la spinta del mondo rutilante di merci e del consumismo, nuovo spazio del sacro che può affermarsi solo distanziandosi dal vecchio sacro, regolatore per millenni dei valori e del vivere sociale. Il diritto individuale al godimento senza limiti è necessario che si instauri come ideologia dominante a legittimare la diversificazione sociale e la indifferenza sul mercato di ciò che si consuma, misurato solo dal denaro. Il consumo divinizza e sacralizza il presente.
            Le speranze di uguaglianza, trasformazione sociale, partecipazione e capacità di sviluppo economico apertesi con le rivoluzioni proletarie aperte dall’analisi marxista vengono via via percepite come incapaci di mantenere le promesse di conciliare assenza di sfruttamento, uguaglianza distributiva, democrazia partecipata, sviluppo economico.
            Il “neanche io mi sento tanto bene” esprime la percezione che il diveniente dilagare del pensiero “liberal-democratico” (qualche volta condito con un pizzico di richiamo, ma senza esagerare, a una ideologia “liberal-socialista”, più mito che realtà) non sazia di fronte alla sfida dei tempi.
            Il senso comico della battuta deriva dalla percezione spiazzante che ognuno di noi prova in quel paragone di sé con il divino. Quando tutto sembra crollare è solo dal ripartire dal principio che potrà venire qualcosa.
            Il dramma del presente sta’ qui.
            Di fronte al divenire che si preannunciava la sinistra di occidente, di tradizione socialdemocratica o comunista, ha evitato il compito.  È passata armi e bagagli alla nuova ideologia dominante. Conservando al massimo un rivendicazionismo redistributivo e un agire sociale incentrato sui diritti civili in sostituzione di quelli ben più ambiziosi della trasformazione sociale. Diritti civili che peraltro sono sempre più colonizzati dall’organizzarsi di nuove forme di edonismo; diretta espressione del trionfo del desiderio dell’individuo che si organizza in gruppo solo per rompere le barriere che si frappongono fra lui e il godimento salvo tornare, subito dopo, nella sua solitudine di uomo sul mercato e nel mercato. La sinistra non ha neanche più una sua antropologia elementare.
            Ecco allora l’ideologia della politica che fa le regole ma non gestisce l’economia. Financo lo stato, la moneta, gli indirizzi economici e produttivi fondamentali. La rinuncia a ogni strumento pubblico di intervento in economia. Il tema della governabilità in sostituzione di quello della rappresentanza. La concezione della democrazia come staccata da ogni contesto concreto sociale, di vita, e ridotta a sola tecnica di selezione del ceto politico. Da eleggere giocando con le leggi elettorali. L’imbroglio al posto della strategia.
            Ad oriente, gli eredi delle rivoluzioni del ‘900, hanno tentato di salvare il salvabile. Con contraddizioni e alterne vicende.  Constatata la difficoltà di mantenere unite uguaglianza e sviluppo economico hanno scelto di liberare gli spiriti animali dell’arricchitevi nel tentativo di recuperare il gap storico, precedente le rivoluzioni e che le ha attraversate, di sviluppo economico. Ma hanno conservato la consapevolezza che nel momento in cui liberava la bestia, essa poteva disfare la nazione, la sua dimensione a scala continentale, e ricacciarli a servi dell’occidente. Storia antica. Antiche saggezze. La consapevolezza che il presente non basta. Hanno cosi delimitato strettamente i limiti dell’agire, concentrato il potere politico, rafforzato la capacità militare, surclassata dalla corsa alle armi dell’impero di occidente, affidato il consenso non a democrazia e partecipazione delle masse ma al perdurare di ritmi elevati di sviluppo economico. Una corsa a cavallo della globalizzazione e dell’arricchimento senza dimenticare, nel centro delle loro élite, che si corre sull’orlo del precipizio. Le nuove enormi differenziazioni sociali, in Cina, in Russia, infatti, possono riaprire scontri di classe ingestibili non appena dovesse cessare la garanzia di sviluppo economico.
            Il microchip messo a punto a cavallo degli anni 70 dal fisico vicentino Federico Faggin ha aperto la porta al più grande potenziamento della capacità di calcolo della storia.
            L’applicazione inevitabile al mondo produttivo ha sconvolto il mondo.  Finanza, tecnologie produttive, organizzazione del lavoro, globalizzazione economica, trasformazione del commercio e dei servizi, vita. La politica e la guerra.
            Il mondo unipolare post ‘89 è diventato oggi di nuovo multipolare disorganizzato. Potenze regionali in lotta fra loro con nuovi interessi geopolitici. L’impero d’Occidente incapace di garantire il suo ordine. La crisi economica apre nuove competizioni e nuovi terreni di conquista di sfere di influenza. Si scende in campo con le armi. Una guerra mondiale combattuta a pezzi, come dice papa Francesco.
Il pacifismo è stato quasi azzerato dal terrorismo all’insegna di una religione risorta e declamata combattente.
            Infine è nato un nuovo campo di azione: la raccolta e il trattamento su scala mai vista di ogni informazione dalla quale trarre nuove forme di organizzazione, di controllo sociale, politico, economico. Nuove forme di “intelligenza artificiale”. Nasce l’Infosfera.
            In questa trasformazione la Sinistra, nelle sue varie versioni, ha perduto la capacità di rappresentare il lavoro, di avere un’ egemonia sul tema su cui era nata.
            Questo sembra a noi il punto.
Il postulato è che una sinistra che non rappresenta il lavoro non solo ha il futuro di un gatto sulla tangenziale ma, peggio, apre praterie sterminate di conquista, a partire dall’evolvere della più grave crisi economica dopo il 1929, a una destra pericolosa e regressiva. Il capitalismo moderno può ancor di più di quello passato fare a meno della democrazia. Se cede l’argine della rappresentanza autonoma del lavoro tutto torna possibile. Si pensi alla richiesta di “uomo forte” condivisa oggi dal 80% degli italiani. Lo stesso problema della governabilità può più utilmente essere visto come la conseguenza della crisi di una capacità di rappresentanza, che in quanto tale impedisce anche di organizzare compromessi con il nemico. Declamare nobili valori e progressive sorti dei processi democratici non convince da solo un mondo del lavoro spaventato, in regressione di sicurezza, di prospettive economiche, sempre più precarizzato e privo di diritti. Anzi aumenta l’ansia individuale e sociale dei più deboli.  Chi ha paura non chiede democrazia ma protezione, sicurezza, ordine, appartenenza, esclusione del diverso. E visto che l’arricchimento senza limiti non è messo in discussione da nessuno ma anzi è il sacro risultato di chi ha vinto nella competizione, ideologia introiettata all’insegna del riconoscimento del merito, non rimane che la guerra fra poveri.
Il processo lavorativo è il cuore della struttura sociale. Mai il lavoro è stato più centrale nel processo di valorizzazione. Mai i lavoratori sono stati più in balia dell’organizzazione produttiva.
Senza recuperare la rappresentanza del lavoro nessun altro compito è possibile.
            Cosa è stato perduto? Non ci resta che ripartire dal principio per tentare una risposta.
            Dedichiamo questo lavoro a coloro che si sentono vinti ma non convinti. A coloro che sentono ancora vivo il sacro fuoco di appartenere ad un mondo dove l’eguaglianza fra gli uomini possa garantire perfino più sviluppo del progresso umano, senza depredare la natura come oggi accade.
La convinzione che senza uguaglianza la stessa libertà diventa quella della volpe nel pollaio. La convinzione che rimane aperto e insoluto il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E della via che lo rende possibile: la proprietà dei mezzi di produzione. Che sia un caso che la ricchezza corra irrefrenabile verso la più alta concentrazione in poche mani che si sia mai vista nella storia del genere umano?
            Ulisse tappò le orecchie ai suoi rematori spronati a navigare e si legò all’albero della nave affinché potesse udire sì il canto seduttivo delle sirene ma senza che questo avesse la forza di cambiare il suo intento di ritornare a Itaca. I Proci hanno invaso la casa è fatto scempio. Il regno deve essere riconquistato. L’arco deve essere ammorbidito al calore del fuoco perché possa tornare a tendersi.
            Una donna, Penelope, in quella casa lavorava tessendo di giorno una tela che disfaceva di notte. Non sembri lontano il richiamo. Abbiamo avvertito che saremmo partiti dal principio. Siamo convinti che seguendo lo sviluppo di alcune invenzioni umane, fino ai giorni nostri, e della capacità di calcolo estrema e dell’algoritmo applicato ai processi produttivi, si possa descrivere e comprendere ciò che ci è sfuggito, e ri-afferrare il presente.
            Ridefiniamo dunque il lavoro e ricostruiamolo a partire da alcune invenzioni: il telaio per tessere, il coltello, l’arco, il martello, il tornio, la ruota, da cui deriva l’ingranaggio, il calcolo matematico. Non a caso il martello e la falce, il coltello ricurvo, furono nella bandiera di chi almeno ci provò a cambiare il mondo.
In fisica il lavoro è definito dalla moltiplicazione di una forza per uno spostamento.
Questo aspetto è presente nel lavoro umano. Possiamo definirne gli aspetti quantitativi con il nome di “intensità” del lavoro.
Ma il lavoro umano si connota per altre e più complesse caratteristiche aggiuntive.
Innanzitutto coinvolge processi intellettivi necessari a definire gli scopi e le modalità del lavoro: definiamo questo aspetto come “qualità del lavoro”. Anticamente e poi su quasi fino a noi, alla nascita dell’industria, queste qualità non si distinguevano, quando sostanziali, da quelle definite artistiche. Termine, non a caso che ha la stessa radice di artigiano.
In secondo luogo il lavoro è svolto da un essere umano che deve essere prodotto e riprodotto. Prodotto nelle sue capacità da sviluppare con la formazione, nella sua forza da alimentare con quanto serve alla sua sopravvivenza. Affinché possa ricominciare il giorno dopo. Riprodotto in quanto un lavoratore dovrà prima o poi essere sostituito da una nuova generazione.
            Considerazioni Banali. Ma c’è qualcuno che può affermare che si possa rappresentare il lavoro senza essere decisivi su questi aspetti che lo connotano nelle concrete connotazioni organizzative, tecnologiche, storiche, sociali e politiche? Che siamo oggi all’altezza del compito?
            Torniamo a Penelope. Il telaio sul quale tesseva la sua tela (risalente per conformazione a migliaia di anni prima) era composto da una barra di traverso di legno sostenuta da due pali fissati davanti a sé. Dei fili, tratti avvolgendo brevi fibre fra loro, annodati sull’asse traverso scendevano, tirati da pesi, uno vicino all’altro formando quello che si chiama l’ordito. Un filo legato attorno a un legnetto costituiva la primitiva navetta che Penelope faceva passare alternativamente sopra e sotto ogni filo dell’ordito da destra a sinistra e viceversa a formare la trama del tessuto tenuta insieme dal più semplice dei nodi che si possa concepire: l’incastro alternato fra fibre.
Giocando abilmente sui colori dei fili di ordito e trama e sui loro incroci Penelope poteva anche comporre disegni sul tessuto. Il pettine tratto dalla fine lavorazione di un corno che Ulisse le aveva regalato per acconciare i suoi capelli veniva ora usato per compattare il filo di trama sull’ordito. Un altro bastone traverso che separava alternativamente a destra e a sinistra del suo asse i fili dell’ordito veniva mosso per creare il passo dentro il quale passava la navetta della trama. Il liccio.
Con poche varianti questo tipo di telaio arriverà all’epoca romana superando cristo di 500 anni. Con qualche altra variante funzionerà per altri mille anni e più.  Assumendo una dimensione orizzontale, perfezionando il licio, la navetta, il pettine, il sincronismo dei movimenti e la forza motrice espansa all’uso delle gambe oltre che delle braccia.
            4.000 anni prima che Penelope si mettesse a tessere, in Mesopotamia qualcuno scopri che era più facile costruire un vaso se si rendeva girevole la superfice piatta su cui si appoggiava la creta. Meglio ancora se quella superfice piatta era fissata ad un palo verticale, tenuto in verticale ma libero di ruotare, con un altro disco fissato sotto da far girare con i piedi.
Senza saperlo quel vasaio aveva inventato il tornio e la ruota. Rovesciando l’asse verticale del tornio e rendendo liberi i piatti di ruotare attorno all’asse, il tornio diventava l’asse di un carro. Il mozzo nasceva forando il disco-ruota. Forare oggetti duri era una capacità che si era formata con le tecniche di accensione del fuoco.  Il primo regalo della tecnica fatto dagli dei agli uomini. La corda dell’arco avvolta con un giro attorno a un perno permetteva di farlo ruotare, tirando e spingendo, agevolando l’accensione del fuoco tramite la produzione di calore per attrito. Con polvere dura aggiunta sul luogo dello sfregamento si corrodeva aprendo un foro sulla parte sollecitata. Era nato il trapano.
Il mozzo passò da un iniziale semplice buco nel quale infilare un asse rotondo lubrificato da grasso animale a qualcosa di più resistente ottenuto usando i metalli. Rame, bronzo, ferro poi. Inizialmente fuso o battuto per formarlo e compattare il metallo. Il martello nelle mani dell’antico fabbro, insieme al fuoco, lo strumento principale.
La matematica è la più potente delle forze produttive. Inizialmente sorse quasi dalla natura abbinando ad un oggetto un simbolo e aggiungendo tanti simboli quanti gli oggetti da rappresentare in corrispondenza uno a uno.  Ma con questo sistema erano rappresentabili percettivamente solo ristrette quantità. Per aumentare la potenza era necessario passare a un metodo che permettesse di rappresentare un aggregato limitato di simboli con un simbolo diverso. Erano nati i numeri naturali.
Nulla fu poi più potente dell’invenzione del niente. Lo zero. Lo zero permise di usare la posizione, in una serie di simboli che rappresentavano simboli, per descrivere in modo meravigliosamente sintetico una quantità. Lo studio delle forme originato dalla necessità di produrre cerchi per fare una ruota, rettangoli per fare un telaio, per la necessità di misurare e confrontare una superfice agricola o una quantità di semi originò la geometria. Lo studio dei sui rapporti e delle contraddizioni che ne nascevano portò alla invenzione di nuove categorie di numeri oltre i naturali.
Misura, rapporto, proporzione, rapporto fra eguaglianze, da cui nasce l’equazione, e con le figure geometriche, e fra di loro, costituì la creazione della base concettuale che, abbinata alla tecnologia del tempo, permetteva di confezionare un prodotto o una macchina. Senza la padronanza di questi concetti non sarebbe stata possibile neanche e soprattutto l’arte delle origini. Quella sacra in particolare dove la padronanza della matematica e della geometria permetteva di conferire all’oggetto destinato a rappresentare il sacro, per esempio un altare finemente decorato, la grandiosità che l’uomo proietta sugli dei.
Ma già compariva il rudimento del primo algoritmo. L’Algoritmo designava la concatenazione di operazioni logiche e matematiche necessarie a raggiungere uno scopo. Potremmo navigare ancora per tecnologie e prodotti del lavoro e dell’arte alle origini della nostra storia ma non aggiungerebbe molto a quanto già si evidenzia.
            Queste tecnologie attraversano il tempo con lenti sviluppi e scarse innovazioni fondamentali, salvo la polvere da sparo, per avvicinarsi a noi fino al tempo di Galileo.
             Già si può notare che (salvo la non secondaria eccezione del lavoro schiavistico e del l lavoro servile) colui che lavora detiene il controllo della intensità del lavoro, dell’uso delle capacità intellettuali, apprese per discendenza e apprendistato e sviluppate e perfezionate per esperienza.
Il lavoratore possiede gli strumenti del suo lavoro ed il suo prodotto. Lo scambio del suo prodotto costituisce la risorsa da cui trarre la produzione e la riproduzione di sé. In realtà perfino nel lavoro schiavistico e poi servile chi lavora possiede un controllo non secondario su intensità e qualità del lavoro. L’esproprio è sul prodotto del suo lavoro, e sulla sua libertà politica, dunque sulla condizione della sua produzione e riproduzione come lavoratore. Il lavoro rimaneva una attività scarsamente organizzata socialmente, salvo le grandi opere pubbliche, e per lo più condotta a livello artigianale e familiare.
L’energia che permetteva di muovere i semplici strumenti di cui disponeva era data per lo più dal puro dispendio della sua energia fisica o di quella dei suoi animali. L’artigiano che via via cresceva e si espandeva fuori dal castello formando il borgo svolgeva certamente spesso un duro lavoro fisico, a volte insalubre, ma di notte dormiva come un ghiro pieno della realizzazione che il possesso di tutti gli aspetti del suo lavoro gli permetteva. Era stanco ma non alienato.
            Ma la polvere da sparo cambia tutto. La possibilità di bruciarla all’interno di un cilindro per lanciare un proiettile apre la necessità dello studio del moto, delle forze, delle attrazioni che determinano il tornare del proiettile a terra, dell’energia e delle sue forme. Ciò porta a nuovi sviluppi nella matematica e nelle tecniche di lavorazione dei metalli.  Porta al legame della conoscenza con l’esperimento e la riproducibilità di esso. Porta alla scienza moderna. Si pensi che i primi fucili venivano costruiti battendo una lamina metallica a caldo attorno ad una anima cilindrica fino a formare un tubo compatto resistente ad una esplosione interna. Precedentemente la fusione in uno stampo, tratta dalla esperienza di quella della costruzione per campane, costituì la base delle prime armi da fuoco. La lavorazione dei metalli non andava oltre le tecniche padroneggiabili da un fabbro e da un fonditore.
            La via aperta da Galileo porta allo sviluppo di importanti innovazioni che segnano un salto.
            Il miglioramento delle tecniche di produzione e lavorazione dei metalli permette la costruzione di macchine utensili più precise e potenti capaci di tornire, fresare, tagliare, pressare, forare i metalli. Andando oltre il legno o il semplice ferro battuto come materia prima.
Il miglioramento di queste tecniche permette di produrre macchine per produrre energia e movimento e di sostituire con questa quella prima prodotta dai muscoli. Una ruota fatta girare dal vento, poi dall’acqua, e in seguito dalla macchina a vapore, (la cui costruzione non sarebbe stata possibile senza l’invenzione di trapani e frese e torni sufficientemente precisi e robusti nonché dalla scoperta che si poteva modificare il ferro aumentandone resistenza e durezza tanto da utilizzarlo come tagliente per quasi tutti i metalli stessi). Seguì, grazie alla scoperta delle leggi che regolano l’elettromagnetismo, la possibilità di generare energia trasportabile tramite filo e la possibilità di generare sul posto, (tramite il motore elettrico) la rotazione di un asse, dal quale trarre, con leve e ingranaggi, quanto serviva al funzionamento di una macchina nel processo produttivo. Il telaio, il martello diventato maglio, il tornio e le altre macchine per la lavorazione asportando trucioli, ne uscirono stravolti e moltiplicati nella loro potenza. Ma l’uso di questa tecnologia, nella quale il movimento della macchina utensile veniva sganciato dai muscoli, aveva caratteristiche tecnologiche che richiedevano investimenti non proporzionati se applicati al solo telaio, al solo tornio, al solo maglio, in possesso dell’artigiano. Essi diventavano estremamente vantaggiosi se, invece, un numero di artigiani prima operoso nella loro singola bottega si raggruppavano sotto un unico stabile attrezzato a fornire energia per il movimento delle macchine attraverso la rotazione di un asse (di nuovo la ruota) da trasferire, con pulegge e ingranaggi, ai telai e alle macchine utensili. La manifattura nata aggregando lavoratori che svolgono compiti senza grande uso di energia esterna e con primitive forme di divisione del lavoro a cavallo del 1600 in alcuni limitati settori, (ceramiche e sartoria per esempio) può così trasformarsi e generalizzarsi dando il via alla industrializzazione ad alta intensità di capitali. Nel 1700 in Inghilterra c’erano 250.000 telai tessili artigiani. Nel 1850 i telai erano 250.000 nell’industria e qualche migliaio quelli in mano ad artigiani. 
            Il lavoro comincia a perde la sua dimensione unitaria. Il lavoro viene separato in due grandi categorie: il lavoro salariato, il cui carattere fondamentale è dato dall’ordine da eseguire; il lavoro autonomo, il cui carattere fondamentale è dato dall’obbiettivo da raggiungere.
La divisione del lavoro che prima era fra artigiani ora entra nel prodotto, nel suo processo produttivo. Se devo fare un mozzo come artigiano lo farò in ogni sua parte, insieme al carro su qui andrà montato. Come operaio nell’industria nella quale il tornio e il maglio, il trapano e la pressa, sono mossi da una energia sovrabbondante e sistemica, ogni macchina utensile sarà ottimizzata per svolgere un compito e chi ci sarà addetto svolgerà quel compito, che diventa un pezzo del processo che porta al prodotto. Il prodotto stesso non apparterrà più al lavoro ma a colui che ha messo insieme i capitali necessari a strutturare la fabbrica. Il lavoro, il lavoratore, perde il prodotto, perde la qualità generale intellettuale che era necessaria per farlo ridotta ormai a una parte, funzionale alla lavorazione assegnata. L’intensità del suo lavoro comincia a sfuggire dal suo controllo sempre più determinata dal ritmo della macchina. Ma anche la sua produzione e riproduzione come lavoratore gli sfugge. Prima le risorse derivavano dal possesso del suo prodotto. Ora dallo scambio della sua capacità di sfornare intensità e qualità di lavoro in cambio di un compenso che quantitativamente è ora l’equivalente di una parte del prodotto del suo lavoro. Rimanendo la differenza al possessore di capitale. Tuttavia il processo è ancora primitivo. L’intensità o la fatica che dir si voglia, il tempo in cui è impegnata, l’insalubrità, possono essere estreme. Il comando del capitalista spietato. Ma lo sviluppo tecnologico ancora agli albori dell’industria moderna lascia al lavoratore in molti casi il possesso di quelle conoscenze intellettuali e manuali che caratterizzano la qualità professionale del suo lavoro necessarie a svolgerlo.
            Un tornitore ad esempio, così come un altro operatore di macchina o al telaio, decideva gran parte delle condizioni dell’utilizzo della sua macchina. Velocità di taglio, forma dell’utensile, affilatura e controllo del suo movimento, ritmo ed intensità del lavoro. Non è più un artigiano ma è ancora il possessore di conoscenze e abilità costruite in un lungo percorso. Il montaggio delle parti è inizialmente ancora in mano al lavoratore, alle sue capacità di assemblare e aggiustare.
Ma non poteva durare.
Da una parte la creazione di grandi aggregati produttivi e dall’altra la diffusione dei metodi scientifici aperti da Galileo portavano intrinsecamente ad applicare la stessa scienza al processo del lavoro. Quel sapere intuitivo, cresciuto per prova ed errore, che formava la capacità del nostro tornitore, e dell’artigiano prima di lui, ora poteva essere scomposto nelle sue parti costituenti e studiato con metodo scientifico nel dettaglio. Fu cosi che alla fine del 1800 un ingegnere divenne famoso. Si chiamava F. Taylor. Cominciò studiando le velocitò di taglio e la forma ottimale degli utensili. Passo poi a studiare il modo in cui il lavoratore usava la sua intensità di lavoro. Famosa è la sua scoperta che diminuendo la grandezza della pala con cui gli operai caricavano il carbone aumentava il tonnellaggio che erano capaci di movimentare nella giornata, in contraddizione evidente con la convinzione precedente che pala più grande voleva dire maggior carbone movimentato. Una volta aperta la strada era inevitabile giungere alla conclusione che dividere il lavoro in fasi costituenti parcellizzate all’estremo avrebbe determinato grandi vantaggi produttivi. Cosa altro poteva volere il capitalista se non potenziare la capacità produttiva del lavoro a parità di salario al fine di incamerare la differenza e aumentare i suoi profitti?
            Taylor finì per essere il dio dei capitalisti e il diavolo dei lavoratori verso i quali organizzava solo catene. Al lavoratore, dopo il prodotto del suo lavoro, veniva sottratta la conoscenza, i processi intellettuali che definivano la sua capacità professionale ora incorporata ad ogni passo sempre di più nella macchina.  Andava sottratto anche il controllo sulla sua intensità di lavoro. Dove era possibile determinandola con il ritmo che poteva imporre la macchina. Diversamente con la creazione di un incentivo che, a partire dallo studio esatto del tempo di una fase di lavoro, pagasse il suo miglioramento. Era nato il cottimo.
            Ma una volta scomposto il lavoro in finissime particelle studiate in ogni dettaglio diventava possibile concatenarne il ri-assemblaggio a formare un prodotto finito. La catena di montaggio meccanica. Il Fordismo dal nome del primo che la organizzo.
            Il Taylorismo, il Fordismo, sono stati il palo della tortura del lavoro a partire dalla loro fondazione.
            Eppure forse qualcosa ci fa velo.
Non c’è dubbio che il capitale abbia soggiogato a sé e alle sue esigenze di estrarre profitto la via aperta dalla scienza e dal suo metodo di procedere per divisioni. Eppure c ‘era in ciò qualcosa di ineluttabile sottostante. Ciò fu colto dalle forze di tradizione marxista agli albori del nascente movimento operaio. Non a caso la più importante rivendicazione alle origini partì dal tentativo di portare sotto controllo operaio l’orario di lavoro. Le 8 ore, che furono la prima conquista della rivoluzione bolscevica estesa poi ad occidente dalle lotte del lavoro e dei partiti socialisti. In quella rivendicazione si comprendeva che intanto andava posto un argine allo sfruttamento della intensità di lavoro. Si prendeva atto che la sussunzione nelle macchine del vecchio sapere necessario alla produzione, nonostante il terribile mondo che apriva davanti al lavoro, non era qualcosa di facilmente aggirabile. La sua soluzione implicava un salto enorme nella scienza e nello sviluppo delle forze produttive insieme alla soluzione della contraddizione principale. I rapporti di proprietà e l’appropriazione del prodotto da parte del capitalista. Il suo diritto di decidere, in nome della proprietà, come si lavora e per fare quale prodotto. Anzi al fine null’altro che questo è la proprietà. E mai come oggi, nel modo aperto dallo sviluppo delle capacità computazionali ciò si evidenzia.
            Ma torneremo in materia. Prima dobbiamo ancora scavare.
            Il mondo produttivo aperto dallo sviluppo degli albori della industria e poi dalla applicazione al processo produttivo delle scoperte della fisica maturate fino alla fine dell’1800 avevano caratteristiche comuni a quasi tutti i settori. Era un mondo sostanzialmente analogico. L’energia applicata alla rotazione di un asse alla base del funzionamento di ogni macchina poteva essere controllata solo entro certi limiti. La rotazione dell’asse era rigidamente vincolata dall’uso di ingranaggi come metodo, meccanico, per controllare velocità e spostamento dei componenti della macchina. I sensori da cui trarre informazioni erano pochi, rudimentali e primitivi. I calcoli permessi dallo sviluppo della matematica permettevano di agevolare la progettazione del prodotto e di gestire meglio i processi amministrativi necessari al funzionamento di grandi aggregati produttivi. Il calcolo infinitesimale sviluppatosi a partire dai lavori di Newton e Leibnitz permettevano di imitare, in matematica, il continuo con il discreto e di progettare meglio i prodotti. Ma poi il nostro caro mozzo poteva essere prodotto salo da un operaio che per analogia con il pezzo desiderato, al tornio, muoveva l’utensile, sulla slitta montato, attraverso il controllo tramite manovella di due assi di lavoro ortogonali fra loro.
Questo mondo produttivo analogico subisce ovviamente vari sviluppi e perfezionamenti ma permane nella sua essenza fino alla fine degli anni ‘70 del 1900.
Ma che ne è del nostro algoritmo abbandonato a procedura nei processi matematici elaborati dagli antichi? Esso subisce una sua traduzione materiale per la prima volta nel 1801 ad opera di Joseph-Marie Jacquard. Questi applica alla più antica macchina forse inventata dall’uomo, il telaio per tessere, una serie di schede perforate, (scorrono una dopo l’altra come le cartucce nel nastro di una mitragliatrice) che, impedendo o permettendo, a seconda della presenza o meno del foro sulla scheda, il movimento di un perno che comandava il sollevamento dei licci che controllavano l’ordito, rendeva possibile automatizzare la composizione artistica del tessuto.
            Questa invenzione fu così geniale che ancora alla fine degli anni 70 del secolo scorso i computer che tenevano la contabilità in grandi aziende venivano comandati, per le istruzioni da eseguire, da una scheda perforata.
L’estensione di questo concetto ad altri tipi di lavorazioni, con adeguate modifiche, portò a forme di automatismi basati su semplici tecnologie (fine corsa, camme, azionamento di interruttori di comando o di relè, i più famosi quelli chiamati a tre scambi, che ancora negli anni ‘70 erano oggetto di studio nelle scuole professionali in quanto permettevano di combinare la loro apertura e chiusura in sequenze che permettevano, per esempio, l’avvio di motori o attuatori). L’algoritmo, da concetto astratto si era fatto materia ma non poteva volare. Limitazione della potenza di calcolo, della sensoristica, della capacità di controllare le variabili che determinano lo sforzo e il numero di giri di un motore elettrico, da cui dipende il controllo fine della rotazione attorno ad un asse, impedivano alla radice un salto nello sviluppo di macchine automatiche. Il nostro mozzo al tornio continuava ad essere caricato da un lavoratore che ne eseguiva poi la lavorazione. Precisione ed automatismi del tornio erano migliorati ma al fine il tornitore era ancora decisivo.
            L’assetto tecnologico e i suoi sviluppi alla base dell’industria moderna determinarono in realtà anche la strutturazione sociale, del diritto, delle forme politiche.
            Le vecchie corporazioni che raggruppavano i vecchi artigiani per mestiere cessarono la loro funzione. Quegli artigiani, diventati operai non più in possesso del loro prodotto, delle competenze complete per farlo, del controllo sulla intensità del loro lavoro, vissero tutto ciò con profondo senso di ingiustizia e si misero insieme fondando i primi sindacati che non a caso è una parola (sin-diche) che significa insieme-giustizia.
Ma qualcuno vide più lontano. Era nata l’alienazione su vasta scala. Si era aperta una contraddizione fondamentale nel vivere umano. Non si trattava solo della espropriazione del prodotto del lavoro.
            Che cosa distingue l’operaio di tempi moderni di Charlie Chaplin dal giocatore di tennis a Wimbledon? In fondo entrambi consumano energia in un gesto ripetitivo. Buttare la palla dall’altra parte nel caso del tennista. Ma nel giocatore ogni suo processo intellettuale e ogni suo gesto fisico è concentrato e integrato nello sforzo di cogliere ogni variazione minima del processo a cui è dedito, al fine di raggiungere il risultato; e goderne come il primo cacciatore godé quando con lo stesso processo catturò la preda.
            Nel lavoro moderno aperto dalla industrializzazione definizione dell’obbiettivo, processo intellettuale per raggiungerlo, definizione dello sforzo, possesso finale del risultato, sono tutte fasi separate, scomposte, spezzettate e divise. Decise da altri. Il controllo della variazione in particolare è l’oggetto di ogni studio possibile al fine di espropriarlo dal lavoro per assumerlo nella macchina. Più potente è la macchina più potente questo esproprio.
            Questo tema, ben presente alle origini del movimento operaio nei suoi dirigenti e teorici, sembra oggi desueto e superato. È diventato vecchia anticaglia proprio quando dispiega tutta la sua drammatica potenza. Che svista!!!!
            Già Marx disse che il lavoro non sarebbe mai potuto essere un gioco. Ma aveva luminosa la consapevolezza della contraddizione insanabile aperta nel vivere umano. Essa non è né aggirabile né chiudibile. Anzi va riaperta come terreno concreto anche di azione individuandone le forme moderne che la connotano.
            Ma torniamo ancora indietro. Il passaggio dalle corporazioni al sindacato avvenne mantenendo un punto comune organizzativo fondamentale.
La unione sulla base della appartenenza a processi produttivi simili nei quali la materia prima lavorata, il processo produttivo e il prodotto formavano un qualcosa di omogeneo nei suoi caratteri distintivi. Meccanici, tessili, chimici, edili, falegnami, grafici, ecc. erano i nomi di un prodotto, di un processo ma anche di una forma di organizzazione del sindacato. La categoria. Ciò aveva una motivazione profonda. I processi produttivi e la loro tecnologia nonché i processi intellettuali per eseguirli erano effettivamente classificabili in qualche marniera secondo quegli schemi. E poiché ci si aggrega innanzitutto fra simili inevitabile diventava la connotazione dei limiti della forma organizzativa. Le istituzioni che il sindacato creò per rappresentare il lavoro furono al fondo le seguenti:
·        la creazione di una regolamentazione nazionale per settori omogenei che regolasse i diritti e i doveri del lavoratore. Il contratto nazionale di lavoro.
·        la contrattazione dei cottimi, delle pause, come via per controllare la erogazione della intensità del lavoro.
·        la riduzione dell’orario di lavoro come via per salvaguardare uno spazio libero di vita ad un lavoro sempre più espropriato in tutti i suoi aspetti.
·        la ricomposizione di fasi di lavoro, la creazione di gruppi, come via per limitare gli effetti più alienanti della divisione del lavoro. Unito ad un intervento sui processi formativi.
·        la divisione dei lavoratori in classi omogenee, per caratteristiche di capacità professionali, dalle quali far dipendere le loro differenziazioni salariali. L’inquadramento professionale.
            Un salto di genio fu fatto in materia a cavallo dagli anni ‘70 quando si assunse non più la qualità specifica della formazione professionale, del sapere, (inevitabilmente diversa a seconda di quello che fai) necessaria al lavoro per connotarne la classificazione, ma la quantità di tempo e di impegno intellettuale consumata per raggiungerlo.
Era nato l’inquadramento unico. Il tornitore specializzato e il ragioniere potevano stare nel medesimo livello professionale e di retribuzione base, (all’interno della categoria definita dal contratto collettivo nazionale di lavoro) perché si presupponeva che all’incirca stesso dispendio di tempo e di impegno intellettuale doveva essere consumato per raggiungere la competenza necessaria a fare un lavoro che rimaneva qualitativamente differente.
            La costruzione di diritti politici dentro l’azienda. L’articolo 18, lo statuto di lavoratori, il massimo punto di arrivo.
            Questo dentro la fabbrica.
All’esterno, il terreno della produzione e della riproduzione del lavoratore l’azione si concentrò sullo svincolare gli aspetti che determinano queste condizioni dal mercato. Cure sanitarie, pensioni, formazione scolastica, cosi decisive nel produrre il lavoratore e la sua discendenza, diventarono il terreno di una lotta al fine di rendendole pubbliche, liberandole dalla differenziazione che, private e lasciate al mercato, avrebbero determinato fra i lavoratori.
            In fondo ad oggi qui stiamo e attorno a queste questioni subiamo arretramenti (tanti) e avanzamenti (pochi).
            La tesi che qui esponiamo è che i cambiamenti determinati nella e dalla tecnologia computazionale, Il dominio di questa da parte dell’algoritmo, le trasformazioni nella organizzazione del lavoro e nel processo produttivo che connotano l’erogazione di lavoro oggi, abbiano minato alla base le forme organizzative e le istituzioni contrattuali e di diritto costruite nel 900.
            Il vecchio mondo analogico alla base della tecnologia e della organizzazione produttive aperta dalla rivoluzione industriale comincia a morire quando i fisici di fine ottocento e prima parte del secolo ‘900 scoprono che il mondo fisico non è continuo. Esso è discreto. Fatto di quantità elementari di energia fra cui è possibile solo il salto non la variazione infinitesimale. Tempo e spazio non esistono da soli ma solo in rapporto reciproco. Esiste poi una velocità limite nell’universo. Quella della luce nel vuoto. La scoperta che il mondo non è continuo ma discreto è la più formidabile e controintuitiva scoperta fisica di tutti i tempi.
            La conoscenza dei processi fisici che questa a reso possibile ha del prodigioso. Lo studio di come questo discreto si manifesta, delle assurdità intuitive a cui da luogo, dai rapporti matematici che regolano la manifestazione della natura a livelli atomici, ha aperto un modo di straordinario progresso tecnico.
             Fermiamo qui lo sviluppo della descrizione di questo mondo nuovo. Ma traiamo però subito la conclusione. Lo studio della materia ai livelli più infimi e l’acquisizione della capacità di manipolarla a quei livelli ha portato a sviluppi tecnologici che possiamo riassumere cosi:
·        il movimento attorno all’asse è diventato controllabile a piacere.
·        la sensoristica si è espansa a livelli inimmaginabili solo qualche decennio fa.
·        la natura discreta, i quanti, alla base della realtà fisica e la capacità di manipolarla ha permesso di manipolare i numeri a scale sovrumane e sempre più potenti, con macchine dal basso consumo energetico e miniaturizzate.
            L’algoritmo che avevamo lasciato materializzato primitivamente in ingombranti processi meccanici ho potuto decollare nella sua potenza grazie a una scala di rappresentazione fisica nei suoi passi elementari che ormai quasi coincide con la scala atomica.
            Il mondo produttivo che si è aperto è squadernato ormai davanti a noi.
Le macchine hanno potuto incorporare sapere operaio a scala mai vista.
La movimentazione dei pezzi ha potuto diventare automatica.
I processi di amministrazione hanno potuto essere automatizzati in computer che svolgono in modo automatico, guidati da algoritmi che ricostruiscono i passaggi di calcolo in sequenza necessari a definire il risultato. La progettazione ha potuto avvalersi della potenza di calcolo per non solo definire il prodotto, ma anche per simularlo, definirne le fasi di lavorazione da ordinare alle macchine che dovranno lavorare i componenti e assembrarli.
            La possibilità di algoritmizzare una quantità enorme di processi produttivi, di progettazione, e amministrativi guidando una enorme potenza di calcolo. La costruzione di una rete di comunicazione mondiale sulla quale quei calcoli possono viaggiare alla velocità limite dell’universo, la possibilità di trasformare perfino relazioni sociali e strutturazioni psicologiche in un problema di calcolo ha cambiato alla base tutta l’organizzazione sociale e produttiva moderna. Ha cambiato il lavoro alla radice.
            Ma qui possiamo già intuire la nuova realtà del lavoro.
            Oggi il lavoro si divide in realtà in tre categorie.
·        coloro che servono la macchina. Ancora necessari fino a quando i limiti della sensoristica e della manipolazione non permetteranno l’implementazione di processi automatici di sostituzione. Per macchina non si intende qui la macchina utensile, il telaio, ecc. si intende un processo governato dall’algoritmo.
·        il lavoratore Amazon che riceve l’ordine di acquisto sul palmare di cui è stato dotato che gli dice dove trovare il prodotto da confezionare per la spedizione serve una macchina. Le capacità professionali chieste a questo genere di lavoratore sono infime. Pura sostituzione umana dei limiti dei processi di automazione. Ma comunque totalmente assorbito e trasformato in componente di un processo meccanizzato.
            Per questi lavoratori, spogliati di quasi tutto ciò che caratterizza il lavoro umano, l’intensità del lavoro rappresenta la questione fondamentale. L’impresa per cui lavora farà di tutto per estrarla oltre i limiti dell’umano. I processi produttivi moderni possono fare a meno del cottimo.
La possibilità di programmare il lavoro umano stesso in modo algoritmico, come si programma un computer o un robot, permettono di sostituire il comando dell’algoritmo e della macchina da servire ad ogni altra forma di controllo della erogazione della intensità del lavoro.
·        coloro che controllano la macchina. Una volta il manutentore era l’élite operaia della fabbrica. Doveva avere capacità professionali elevate ed era padrone della intensità di lavoro che erogava.
            Oggi il manutentore, sempre più, non è neanche più un dipendente a fianco degli altri lavoratori.
La progettazione della macchina che dovrà riparare contiene in sé anche la programmazione degli interventi manutentivi.
La macchina è capace di autoanalisi e di trasmissione in qualunque luogo desiderato dei risultati della sua autodiagnosi.
La manutenzione consiste nella sostituzione di componenti. Comunque continua ad essere necessaria una preparazione professionale elevata che permetta di comprendere il sistema su cui si interviene.
·        coloro che progettano la macchina, il prodotto. Questi devono padroneggiare competenze spesso interdisciplinari. La progettazione del prodotto quasi coincide con quella del processo produttivo. Concepito come un tutt’uno con un enorme sistema algoritmico.
A sua volta questi possono essere divisi individuando la componente capace di pensare e implementare i sistemi computazionali, di calcolo e algoritmici, di software, necessari al sistema.
            I processi amministrativi, che occupavano così tanti impiegati fino a pochi anni fa, sono stati assorbiti dalla automatizzazione computerizzata delle loro procedure. E siamo solo all’inizio.
            Ma la cosa più interessante, a nostro avviso, è che i processi produttivi, la loro tecnologia, non ha quasi più un legame con il prodotto e la materia prima.
Tagliare lamiera per fare una nave, per fare la macchina del caffè che bevi la mattina, per tagliare la stoffa del vestito che porti, per tagliare la vetroresina del casco del motociclista o i componenti di un mobile Ikea si basa fondamentalmente sugli stessi principi tecnologici e richiede per essere eseguita le stesse qualità professionali. Il nostro mozzo, quando viene definito dal progettista, porta con sé gli ordini per la macchina che dovrà tornirlo, quelli per il cambio automatico dell’utensile, quelli relativi a velocità di taglio e caratteristiche dell’utensile, le istruzioni del robot che ne movimenterà il carico sul tornio, i criteri di qualità e tolleranza che ne definiscono lo scarto, ecc.
            Ma la stessa tecnologia sarà alla base della costruzione della gamba di legno di un tavolo. O della stampa automatica di un progetto. E del meccanismo di puntamento del cannone di un carro armato. Da cui poi in realtà deriva per estensione.
I processi di montaggio di componenti per formare il prodotto finale ugualmente rispondono alle stesse tecnologie computerizzate e agli stessi limiti di queste, ma anche diventano più flessibili superando il vecchio vincolo meccanico della catena di montaggio.
            Quale è poi la differenza nei processi amministrativi delle fabbriche moderne. Nessuna. Essa non ha più alcun legame con il settore merceologico.
            Si pensi alle banche. Oggi non serve più neanche andarci se non in specifici casi.
La categorializzazione del lavoro (meccanici, tessili, chimici ecc.), sin dalla prima rivoluzione industriale, è stata una costruzione politico sociale di straordinaria importanza: ha prodotto una identità sociale, un modello di solidarietà, uno status professionale. La categoria è stata la forma, l’idealtipo per dirla con M. Weber con cui è stata condotta la lotta di classe dell’ultimo secolo
            Se tutto questo è la realtà, o almeno la tendenza, allora si capisce perché abbiamo perso la rappresentanza del lavoro.
Il contratto nazionale su base merceologica, più che unire il mondo del lavoro ora lo divide. L’inquadramento unico professionale non descrive più la nuova realtà dei processi produttivi e non struttura più il lavoro e i criteri retributivi al suo interno.
L’intensità del lavoro e la sua estrazione è uscita da ogni controllo e strategia di intervento. Salvo esplosioni di lavoratori che si ribellano, come in Amazon, guidati da forze sindacali autonome il cui unico merito è di cogliere la durezza del lavoro presente. Di nominarla. Ma incapaci di una strategia.
Le tecnologie informatiche, l’algoritmo, stanno ridefinendo processo di lavoro e lavoratori, struttura della occupazione e degli occupati.
Le macchine - sostiene un esperto - offrono agli uomini l’opportunità di concentrarsi sempre più sulla parte “poietica” del lavoro, vale a dire quella che richiede immaginazione, sensibilità e creatività e che non è quindi programmabile.
Ma le macchine possono estendere al cervello il dominio che il taylorismo puntava ad esercitare solamente sui corpi.
Le rivoluzioni tecnologiche - in quanto fatti irreversibili - possono sempre servire fini politici e sociali differenti. Persino opposti.
Sorgono quindi alcune domande fondamentali, sempre più impossibili da ignorare o da aggirare. Da qualsiasi burocrazia.
a.     Tali tecnologie rendono possibile un nuovo rapporto tra autonomia e dipendenza del lavoro. Passare dalla mano d’opera al cervello d’opera.  Come lavorare allora al superamento dell’antica frattura tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, reso possibile dalle tecnologie della prima rivoluzione industriale?
b.     Tali tecnologie svuotano in maniera accelerata la vecchia categorializzazione del lavoro, ereditata dalle precedenti rivoluzioni tecnologiche. Come passare allora da una categorializzazione del lavoro su base merceologica ad una nuova categorializzazione del lavoro su base tecnologica? Come passare quindi ad una strategia e struttura contrattuale conseguente?
c.      Tali tecnologie rendono obsoleta l’antica strategia centrata - tutto sommato - sulla ricomposizione delle mansioni. Come riordinare allora una strategia in ogni luogo di lavoro in grado di affrontare le contraddizioni che le nuove tecnologie provocano nel loro affermarsi, e quindi su quali parole d’ordine organizzare una azione permanente sulla concreta organizzazione del lavoro? Salute, intensità del lavoro, reperibilità ecc.?
d.     Quali politiche pubbliche, quali Istituti, quali Agenzie, in definitiva quale rete di “Proprietà Sociali”, - Gramsci direbbe Casematte - costruire o ricostruire per rifondare la reale praticabilità di diritti dai quali deriva la potenza politica e sociale del Lavoro? (a partire perfino dai più elementari come ferie, malattia, infortuni, congedi parentali, ecc. oggi resi inesigibili per tanti che pur svolgendo un lavoro in realtà eterodiretto sono nel regno di nessuno del lavoro autonomo, profondamente ridisegnato dall’algoritmo in quanto a potenza di controllo e subordinazione reale.
e.     Alla luce dell’algoritmo va riscritta, l’intera ragion d’essere del Sindacato, dalla strategia contrattuale, alla classificazione professionale, al contratto nazionale. (Il dipartimento lavoro e affari sociali della OCSE stima in Italia l’esistenza di 868 contratti di lavoro nazionali).  Ad un nuovo Statuto del Lavoro, alla stessa struttura organizzativa del sindacato.
La sua dimensione categoriale appartiene al meglio del mondo produttivo analogico ma è un residuo insostenibile a rappresentare e unificare il lavoro al tempo dell’algoritmo.
Bisogna riaprire uno studio profondo della organizzazione del lavoro che vada oltre gli schemi che pure sopra abbiamo abbozzato e raffinarli. Ma ciò non sarà possibile né produttivo se, prima nei concetti e poi perfino nel linguaggio, non saremo percepiti dai nuovi lavoratori come chi, in qualche modo, li “intende”. Inevitabilmente solo dopo questa connessione matureranno “saperi sindacali” ulteriori, strategie rivendicative, anche aziendali, capaci di fornire vie di contrattazione.
Infine bisogna ricostruire una egemonia culturale sul fatto che salute, sanità, scuola formazione, pensioni, devono rimanere fuori dalle leggi di mercato.
Primo perché le nuove tecnologie permettono una loro organizzazione meno costosa, molto meno costosa, di quella che il mercato e le sue leggi possono offrire.
Secondo perché il lavoro liquido, spappolato, diviso, saltuario, ha ancora più bisogno di queste strutture unificatrici oltre che di giustizia e uguaglianza sociale.
Gravi cedimenti sono già avvenuti in materia. Il welfare aziendale, sanita e pensioni integrative non riportano la rappresentanza del lavoro a chi ne vuole la sua emancipazione.
Sembra incredibile che nessuno rifletta sul fatto che tali politiche da una parte implicano un uso della tassazione pubblica regressivo - ( i lavoratori più deboli, senza avere la forza di costruire il loro welfare privato aziendale defiscalizzato, finanziano con le loro tasse i fondi previdenziali e sanitari dei più previlegiati e forti) dall’altro, vedi pensioni integrative, l’uso delle risorse dirottate a questo fine - con il sostegno fiscale accennato - è stato  assorbito  dal sistema finanziario nelle sue spire di finanza speculativa.
L’algoritmo è destinato a diventare uno spartiacque nella vicenda storica del Lavoro, nella sua organizzazione e nella sua potenza sociale e politica.

Luigi Agostini

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