“si può vivere solo da guerrieri………
il guerriero è colui che vive ai confini della consapevolezza del terrore di
essere uomini e della meraviglia di essere uomini ……. la differenza fra il predatore e la preda è
che la preda è prevedibile”. Don Juan
Matus, stregone yaqui a Carlos Castaneda in “a scuola dallo stregone” e altri
scritti.
Premessa:
perché leggere questo libro.
“Dio è morto, Marx è
morto, e neanche io mi sento tanto bene”. Questa celebre battuta, in realtà
dalla incerta attribuzione, riassume, verso la fine del secolo scorso, il
sentimento dei tempi che stavano maturando. Dio retrocede sotto la spinta del
mondo rutilante di merci e del consumismo, nuovo spazio del sacro che può
affermarsi solo distanziandosi dal vecchio sacro, regolatore per millenni dei
valori e del vivere sociale. Il diritto individuale al godimento senza limiti è
necessario che si instauri come ideologia dominante a legittimare la
diversificazione sociale e la indifferenza sul mercato di ciò che si consuma,
misurato solo dal denaro. Il consumo divinizza e sacralizza il presente.
Le speranze di
uguaglianza, trasformazione sociale, partecipazione e capacità di sviluppo
economico apertesi con le rivoluzioni proletarie aperte dall’analisi marxista
vengono via via percepite come incapaci di mantenere le promesse di conciliare
assenza di sfruttamento, uguaglianza distributiva, democrazia partecipata,
sviluppo economico.
Il “neanche io mi
sento tanto bene” esprime la percezione che il diveniente dilagare del pensiero
“liberal-democratico” (qualche volta condito con un pizzico di richiamo, ma
senza esagerare, a una ideologia “liberal-socialista”, più mito che realtà) non
sazia di fronte alla sfida dei tempi.
Il senso comico della
battuta deriva dalla percezione spiazzante che ognuno di noi prova in quel
paragone di sé con il divino. Quando tutto sembra crollare è solo dal ripartire
dal principio che potrà venire qualcosa.
Il dramma del
presente sta’ qui.
Di fronte al divenire
che si preannunciava la sinistra di occidente, di tradizione socialdemocratica
o comunista, ha evitato il compito. È
passata armi e bagagli alla nuova ideologia dominante. Conservando al massimo
un rivendicazionismo redistributivo e un agire sociale incentrato sui diritti
civili in sostituzione di quelli ben più ambiziosi della trasformazione sociale.
Diritti civili che peraltro sono sempre più colonizzati dall’organizzarsi di
nuove forme di edonismo; diretta espressione del trionfo del desiderio
dell’individuo che si organizza in gruppo solo per rompere le barriere che si
frappongono fra lui e il godimento salvo tornare, subito dopo, nella sua
solitudine di uomo sul mercato e nel mercato. La sinistra non ha neanche più
una sua antropologia elementare.
Ecco allora
l’ideologia della politica che fa le regole ma non gestisce l’economia. Financo
lo stato, la moneta, gli indirizzi economici e produttivi fondamentali. La
rinuncia a ogni strumento pubblico di intervento in economia. Il tema della
governabilità in sostituzione di quello della rappresentanza. La concezione
della democrazia come staccata da ogni contesto concreto sociale, di vita, e
ridotta a sola tecnica di selezione del ceto politico. Da eleggere giocando con
le leggi elettorali. L’imbroglio al posto della strategia.
Ad oriente, gli eredi
delle rivoluzioni del ‘900, hanno tentato di salvare il salvabile. Con
contraddizioni e alterne vicende. Constatata
la difficoltà di mantenere unite uguaglianza e sviluppo economico hanno scelto
di liberare gli spiriti animali dell’arricchitevi nel tentativo di recuperare
il gap storico, precedente le rivoluzioni e che le ha attraversate, di sviluppo
economico. Ma hanno conservato la consapevolezza che nel momento in cui liberava
la bestia, essa poteva disfare la nazione, la sua dimensione a scala
continentale, e ricacciarli a servi dell’occidente. Storia antica. Antiche
saggezze. La consapevolezza che il presente non basta. Hanno cosi delimitato
strettamente i limiti dell’agire, concentrato il potere politico, rafforzato la
capacità militare, surclassata dalla corsa alle armi dell’impero di occidente,
affidato il consenso non a democrazia e partecipazione delle masse ma al
perdurare di ritmi elevati di sviluppo economico. Una corsa a cavallo della
globalizzazione e dell’arricchimento senza dimenticare, nel centro delle loro élite,
che si corre sull’orlo del precipizio. Le nuove enormi differenziazioni
sociali, in Cina, in Russia, infatti, possono riaprire scontri di classe
ingestibili non appena dovesse cessare la garanzia di sviluppo economico.
Il microchip messo a
punto a cavallo degli anni 70 dal fisico vicentino Federico Faggin ha aperto la
porta al più grande potenziamento della capacità di calcolo della storia.
L’applicazione
inevitabile al mondo produttivo ha sconvolto il mondo. Finanza, tecnologie produttive, organizzazione
del lavoro, globalizzazione economica, trasformazione del commercio e dei servizi,
vita. La politica e la guerra.
Il mondo unipolare
post ‘89 è diventato oggi di nuovo multipolare disorganizzato. Potenze
regionali in lotta fra loro con nuovi interessi geopolitici. L’impero d’Occidente
incapace di garantire il suo ordine. La crisi economica apre nuove competizioni
e nuovi terreni di conquista di sfere di influenza. Si scende in campo con le
armi. Una guerra mondiale combattuta a pezzi, come dice papa Francesco.
Il pacifismo è stato quasi
azzerato dal terrorismo all’insegna di una religione risorta e declamata
combattente.
Infine è nato un
nuovo campo di azione: la raccolta e il trattamento su scala mai vista di ogni
informazione dalla quale trarre nuove forme di organizzazione, di controllo
sociale, politico, economico. Nuove forme di “intelligenza artificiale”. Nasce
l’Infosfera.
In questa
trasformazione la Sinistra, nelle sue varie versioni, ha perduto la capacità di
rappresentare il lavoro, di avere un’ egemonia sul tema su cui era nata.
Questo sembra a noi
il punto.
Il postulato è che una sinistra
che non rappresenta il lavoro non solo ha il futuro di un gatto sulla
tangenziale ma, peggio, apre praterie sterminate di conquista, a partire
dall’evolvere della più grave crisi economica dopo il 1929, a una destra
pericolosa e regressiva. Il capitalismo moderno può ancor di più di quello
passato fare a meno della democrazia. Se cede l’argine della rappresentanza
autonoma del lavoro tutto torna possibile. Si pensi alla richiesta di “uomo
forte” condivisa oggi dal 80% degli italiani. Lo stesso problema della
governabilità può più utilmente essere visto come la conseguenza della crisi di
una capacità di rappresentanza, che in quanto tale impedisce anche di
organizzare compromessi con il nemico. Declamare nobili valori e progressive
sorti dei processi democratici non convince da solo un mondo del lavoro
spaventato, in regressione di sicurezza, di prospettive economiche, sempre più
precarizzato e privo di diritti. Anzi aumenta l’ansia individuale e sociale dei
più deboli. Chi ha paura non chiede
democrazia ma protezione, sicurezza, ordine, appartenenza, esclusione del diverso.
E visto che l’arricchimento senza limiti non è messo in discussione da nessuno
ma anzi è il sacro risultato di chi ha vinto nella competizione, ideologia
introiettata all’insegna del riconoscimento del merito, non rimane che la
guerra fra poveri.
Il processo lavorativo è il cuore della struttura
sociale. Mai il lavoro è stato più centrale nel processo di valorizzazione. Mai
i lavoratori sono stati più in balia dell’organizzazione produttiva.
Senza recuperare la
rappresentanza del lavoro nessun altro compito è possibile.
Cosa è stato perduto?
Non ci resta che ripartire dal principio per tentare una risposta.
Dedichiamo questo
lavoro a coloro che si sentono vinti ma non convinti. A coloro che sentono
ancora vivo il sacro fuoco di appartenere ad un mondo dove l’eguaglianza fra
gli uomini possa garantire perfino più sviluppo del progresso umano, senza
depredare la natura come oggi accade.
La convinzione che senza
uguaglianza la stessa libertà diventa quella della volpe nel pollaio. La
convinzione che rimane aperto e insoluto il problema dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo. E della via che lo rende possibile: la proprietà dei mezzi
di produzione. Che sia un caso che la ricchezza corra irrefrenabile verso la
più alta concentrazione in poche mani che si sia mai vista nella storia del genere
umano?
Ulisse tappò le
orecchie ai suoi rematori spronati a navigare e si legò all’albero della nave
affinché potesse udire sì il canto seduttivo delle sirene ma senza che questo
avesse la forza di cambiare il suo intento di ritornare a Itaca. I Proci hanno
invaso la casa è fatto scempio. Il regno deve essere riconquistato. L’arco deve
essere ammorbidito al calore del fuoco perché possa tornare a tendersi.
Una donna, Penelope,
in quella casa lavorava tessendo di giorno una tela che disfaceva di notte. Non
sembri lontano il richiamo. Abbiamo avvertito che saremmo partiti dal
principio. Siamo convinti che seguendo lo sviluppo di alcune invenzioni umane,
fino ai giorni nostri, e della capacità di calcolo estrema e dell’algoritmo
applicato ai processi produttivi, si possa descrivere e comprendere ciò che ci
è sfuggito, e ri-afferrare il presente.
Ridefiniamo dunque il
lavoro e ricostruiamolo a partire da alcune invenzioni: il telaio per tessere, il
coltello, l’arco, il martello, il tornio, la ruota, da cui deriva
l’ingranaggio, il calcolo matematico. Non a caso il martello e la falce, il
coltello ricurvo, furono nella bandiera di chi almeno ci provò a cambiare il
mondo.
In fisica il lavoro è definito
dalla moltiplicazione di una forza per uno spostamento.
Questo aspetto è presente nel
lavoro umano. Possiamo definirne gli aspetti quantitativi con il nome di
“intensità” del lavoro.
Ma il lavoro umano si connota
per altre e più complesse caratteristiche aggiuntive.
Innanzitutto coinvolge processi
intellettivi necessari a definire gli scopi e le modalità del lavoro: definiamo
questo aspetto come “qualità del lavoro”. Anticamente e poi su quasi fino a
noi, alla nascita dell’industria, queste qualità non si distinguevano, quando sostanziali,
da quelle definite artistiche. Termine, non a caso che ha la stessa radice di
artigiano.
In secondo luogo il lavoro è
svolto da un essere umano che deve essere prodotto e riprodotto. Prodotto nelle
sue capacità da sviluppare con la formazione, nella sua forza da alimentare con
quanto serve alla sua sopravvivenza. Affinché possa ricominciare il giorno
dopo. Riprodotto in quanto un lavoratore dovrà prima o poi essere sostituito da
una nuova generazione.
Considerazioni
Banali. Ma c’è qualcuno che può affermare che si possa rappresentare il lavoro
senza essere decisivi su questi aspetti che lo connotano nelle concrete
connotazioni organizzative, tecnologiche, storiche, sociali e politiche? Che
siamo oggi all’altezza del compito?
Torniamo a Penelope.
Il telaio sul quale tesseva la sua tela (risalente per conformazione a migliaia
di anni prima) era composto da una barra di traverso di legno sostenuta da due
pali fissati davanti a sé. Dei fili, tratti avvolgendo brevi fibre fra loro, annodati
sull’asse traverso scendevano, tirati da pesi, uno vicino all’altro formando
quello che si chiama l’ordito. Un filo legato attorno a un legnetto costituiva
la primitiva navetta che Penelope faceva passare alternativamente sopra e sotto
ogni filo dell’ordito da destra a sinistra e viceversa a formare la trama del
tessuto tenuta insieme dal più semplice dei nodi che si possa concepire:
l’incastro alternato fra fibre.
Giocando abilmente sui colori
dei fili di ordito e trama e sui loro incroci Penelope poteva anche comporre
disegni sul tessuto. Il pettine tratto dalla fine lavorazione di un corno che
Ulisse le aveva regalato per acconciare i suoi capelli veniva ora usato per
compattare il filo di trama sull’ordito. Un altro bastone traverso che separava
alternativamente a destra e a sinistra del suo asse i fili dell’ordito veniva
mosso per creare il passo dentro il quale passava la navetta della trama. Il
liccio.
Con poche varianti questo tipo
di telaio arriverà all’epoca romana superando cristo di 500 anni. Con qualche
altra variante funzionerà per altri mille anni e più. Assumendo una dimensione orizzontale,
perfezionando il licio, la navetta, il pettine, il sincronismo dei movimenti e
la forza motrice espansa all’uso delle gambe oltre che delle braccia.
4.000 anni prima che
Penelope si mettesse a tessere, in Mesopotamia qualcuno scopri che era più
facile costruire un vaso se si rendeva girevole la superfice piatta su cui si
appoggiava la creta. Meglio ancora se quella superfice piatta era fissata ad un
palo verticale, tenuto in verticale ma libero di ruotare, con un altro disco fissato
sotto da far girare con i piedi.
Senza saperlo quel vasaio aveva
inventato il tornio e la ruota. Rovesciando l’asse verticale del tornio e
rendendo liberi i piatti di ruotare attorno all’asse, il tornio diventava l’asse
di un carro. Il mozzo nasceva forando il disco-ruota. Forare oggetti duri era
una capacità che si era formata con le tecniche di accensione del fuoco. Il primo regalo della tecnica fatto dagli dei
agli uomini. La corda dell’arco avvolta con un giro attorno a un perno permetteva
di farlo ruotare, tirando e spingendo, agevolando l’accensione del fuoco
tramite la produzione di calore per attrito. Con polvere dura aggiunta sul
luogo dello sfregamento si corrodeva aprendo un foro sulla parte sollecitata.
Era nato il trapano.
Il mozzo passò da un iniziale
semplice buco nel quale infilare un asse rotondo lubrificato da grasso animale
a qualcosa di più resistente ottenuto usando i metalli. Rame, bronzo, ferro
poi. Inizialmente fuso o battuto per formarlo e compattare il metallo. Il
martello nelle mani dell’antico fabbro, insieme al fuoco, lo strumento
principale.
La matematica è la più potente
delle forze produttive. Inizialmente sorse quasi dalla natura abbinando ad un
oggetto un simbolo e aggiungendo tanti simboli quanti gli oggetti da
rappresentare in corrispondenza uno a uno. Ma con questo sistema erano rappresentabili
percettivamente solo ristrette quantità. Per aumentare la potenza era necessario
passare a un metodo che permettesse di rappresentare un aggregato limitato di
simboli con un simbolo diverso. Erano nati i numeri naturali.
Nulla fu poi più potente
dell’invenzione del niente. Lo zero. Lo zero permise di usare la posizione, in
una serie di simboli che rappresentavano simboli, per descrivere in modo
meravigliosamente sintetico una quantità. Lo studio delle forme originato dalla
necessità di produrre cerchi per fare una ruota, rettangoli per fare un telaio,
per la necessità di misurare e confrontare una superfice agricola o una quantità
di semi originò la geometria. Lo studio dei sui rapporti e delle contraddizioni
che ne nascevano portò alla invenzione di nuove categorie di numeri oltre i
naturali.
Misura, rapporto, proporzione,
rapporto fra eguaglianze, da cui nasce l’equazione, e con le figure geometriche,
e fra di loro, costituì la creazione della base concettuale che, abbinata alla
tecnologia del tempo, permetteva di confezionare un prodotto o una macchina.
Senza la padronanza di questi concetti non sarebbe stata possibile neanche e
soprattutto l’arte delle origini. Quella sacra in particolare dove la
padronanza della matematica e della geometria permetteva di conferire
all’oggetto destinato a rappresentare il sacro, per esempio un altare finemente
decorato, la grandiosità che l’uomo proietta sugli dei.
Ma già compariva il rudimento
del primo algoritmo. L’Algoritmo designava la concatenazione di operazioni
logiche e matematiche necessarie a raggiungere uno scopo. Potremmo navigare
ancora per tecnologie e prodotti del lavoro e dell’arte alle origini della
nostra storia ma non aggiungerebbe molto a quanto già si evidenzia.
Queste tecnologie attraversano
il tempo con lenti sviluppi e scarse innovazioni fondamentali, salvo la polvere
da sparo, per avvicinarsi a noi fino al tempo di Galileo.
Già si può notare che (salvo la non secondaria
eccezione del lavoro schiavistico e del l lavoro servile) colui che lavora detiene
il controllo della intensità del lavoro, dell’uso delle capacità intellettuali,
apprese per discendenza e apprendistato e sviluppate e perfezionate per
esperienza.
Il lavoratore possiede gli
strumenti del suo lavoro ed il suo prodotto. Lo scambio del suo prodotto
costituisce la risorsa da cui trarre la produzione e la riproduzione di sé. In
realtà perfino nel lavoro schiavistico e poi servile chi lavora possiede un
controllo non secondario su intensità e qualità del lavoro. L’esproprio è sul
prodotto del suo lavoro, e sulla sua libertà politica, dunque sulla condizione
della sua produzione e riproduzione come lavoratore. Il lavoro rimaneva una
attività scarsamente organizzata socialmente, salvo le grandi opere pubbliche,
e per lo più condotta a livello artigianale e familiare.
L’energia che permetteva di
muovere i semplici strumenti di cui disponeva era data per lo più dal puro
dispendio della sua energia fisica o di quella dei suoi animali. L’artigiano
che via via cresceva e si espandeva fuori dal castello formando il borgo
svolgeva certamente spesso un duro lavoro fisico, a volte insalubre, ma di
notte dormiva come un ghiro pieno della realizzazione che il possesso di tutti
gli aspetti del suo lavoro gli permetteva. Era stanco ma non alienato.
Ma la polvere da
sparo cambia tutto. La possibilità di bruciarla all’interno di un cilindro per
lanciare un proiettile apre la necessità dello studio del moto, delle forze,
delle attrazioni che determinano il tornare del proiettile a terra,
dell’energia e delle sue forme. Ciò porta a nuovi sviluppi nella matematica e
nelle tecniche di lavorazione dei metalli. Porta al legame della conoscenza con
l’esperimento e la riproducibilità di esso. Porta alla scienza moderna. Si
pensi che i primi fucili venivano costruiti battendo una lamina metallica a
caldo attorno ad una anima cilindrica fino a formare un tubo compatto
resistente ad una esplosione interna. Precedentemente la fusione in uno stampo,
tratta dalla esperienza di quella della costruzione per campane, costituì la
base delle prime armi da fuoco. La lavorazione dei metalli non andava oltre le
tecniche padroneggiabili da un fabbro e da un fonditore.
La via aperta da Galileo
porta allo sviluppo di importanti innovazioni che segnano un salto.
Il miglioramento
delle tecniche di produzione e lavorazione dei metalli permette la costruzione
di macchine utensili più precise e potenti capaci di tornire, fresare,
tagliare, pressare, forare i metalli. Andando oltre il legno o il semplice
ferro battuto come materia prima.
Il miglioramento di queste
tecniche permette di produrre macchine per produrre energia e movimento e di
sostituire con questa quella prima prodotta dai muscoli. Una ruota fatta girare
dal vento, poi dall’acqua, e in seguito dalla macchina a vapore, (la cui
costruzione non sarebbe stata possibile senza l’invenzione di trapani e frese e
torni sufficientemente precisi e robusti nonché dalla scoperta che si poteva
modificare il ferro aumentandone resistenza e durezza tanto da utilizzarlo come
tagliente per quasi tutti i metalli stessi). Seguì, grazie alla scoperta delle
leggi che regolano l’elettromagnetismo, la possibilità di generare energia
trasportabile tramite filo e la possibilità di generare sul posto, (tramite il
motore elettrico) la rotazione di un asse, dal quale trarre, con leve e
ingranaggi, quanto serviva al funzionamento di una macchina nel processo
produttivo. Il telaio, il martello diventato maglio, il tornio e le altre
macchine per la lavorazione asportando trucioli, ne uscirono stravolti e
moltiplicati nella loro potenza. Ma l’uso di questa tecnologia, nella quale il
movimento della macchina utensile veniva sganciato dai muscoli, aveva
caratteristiche tecnologiche che richiedevano investimenti non proporzionati se
applicati al solo telaio, al solo tornio, al solo maglio, in possesso
dell’artigiano. Essi diventavano estremamente vantaggiosi se, invece, un numero
di artigiani prima operoso nella loro singola bottega si raggruppavano sotto un
unico stabile attrezzato a fornire energia per il movimento delle macchine
attraverso la rotazione di un asse (di nuovo la ruota) da trasferire, con
pulegge e ingranaggi, ai telai e alle macchine utensili. La manifattura nata
aggregando lavoratori che svolgono compiti senza grande uso di energia esterna
e con primitive forme di divisione del lavoro a cavallo del 1600 in alcuni
limitati settori, (ceramiche e sartoria per esempio) può così trasformarsi e
generalizzarsi dando il via alla industrializzazione ad alta intensità di
capitali. Nel 1700 in Inghilterra c’erano 250.000 telai tessili artigiani. Nel 1850
i telai erano 250.000 nell’industria e qualche migliaio quelli in mano ad artigiani.
Il lavoro comincia a
perde la sua dimensione unitaria. Il lavoro viene separato in due grandi categorie: il
lavoro salariato, il cui carattere fondamentale è dato dall’ordine da eseguire;
il lavoro autonomo, il cui carattere fondamentale è dato dall’obbiettivo da
raggiungere.
La divisione del lavoro che
prima era fra artigiani ora entra nel prodotto, nel suo processo produttivo. Se
devo fare un mozzo come artigiano lo farò in ogni sua parte, insieme al carro
su qui andrà montato. Come operaio nell’industria nella quale il tornio e il maglio,
il trapano e la pressa, sono mossi da una energia sovrabbondante e sistemica,
ogni macchina utensile sarà ottimizzata per svolgere un compito e chi ci sarà
addetto svolgerà quel compito, che diventa un pezzo del processo che porta al
prodotto. Il prodotto stesso non apparterrà più al lavoro ma a colui che ha
messo insieme i capitali necessari a strutturare la fabbrica. Il lavoro, il
lavoratore, perde il prodotto, perde la qualità generale intellettuale che era
necessaria per farlo ridotta ormai a una parte, funzionale alla lavorazione
assegnata. L’intensità del suo lavoro comincia a sfuggire dal suo controllo
sempre più determinata dal ritmo della macchina. Ma anche la sua produzione e riproduzione
come lavoratore gli sfugge. Prima le risorse derivavano dal possesso del suo
prodotto. Ora dallo scambio della sua capacità di sfornare intensità e qualità
di lavoro in cambio di un compenso che quantitativamente è ora l’equivalente di
una parte del prodotto del suo lavoro. Rimanendo la differenza al possessore di
capitale. Tuttavia il processo è ancora primitivo. L’intensità o la fatica che
dir si voglia, il tempo in cui è impegnata, l’insalubrità, possono essere
estreme. Il comando del capitalista spietato. Ma lo sviluppo tecnologico ancora
agli albori dell’industria moderna lascia al lavoratore in molti casi il
possesso di quelle conoscenze intellettuali e manuali che caratterizzano la
qualità professionale del suo lavoro necessarie a svolgerlo.
Un tornitore ad
esempio, così come un altro operatore di macchina o al telaio, decideva gran
parte delle condizioni dell’utilizzo della sua macchina. Velocità di taglio,
forma dell’utensile, affilatura e controllo del suo movimento, ritmo ed
intensità del lavoro. Non è più un artigiano ma è ancora il possessore di
conoscenze e abilità costruite in un lungo percorso. Il montaggio delle parti è
inizialmente ancora in mano al lavoratore, alle sue capacità di assemblare e
aggiustare.
Ma non poteva durare.
Da una parte la creazione di
grandi aggregati produttivi e dall’altra la diffusione dei metodi scientifici
aperti da Galileo portavano intrinsecamente ad applicare la stessa scienza al
processo del lavoro. Quel sapere intuitivo, cresciuto per prova ed errore, che
formava la capacità del nostro tornitore, e dell’artigiano prima di lui, ora
poteva essere scomposto nelle sue parti costituenti e studiato con metodo
scientifico nel dettaglio. Fu cosi che alla fine del 1800 un ingegnere divenne
famoso. Si chiamava F. Taylor. Cominciò studiando le velocitò di taglio e la
forma ottimale degli utensili. Passo poi a studiare il modo in cui il
lavoratore usava la sua intensità di lavoro. Famosa è la sua scoperta che
diminuendo la grandezza della pala con cui gli operai caricavano il carbone
aumentava il tonnellaggio che erano capaci di movimentare nella giornata, in
contraddizione evidente con la convinzione precedente che pala più grande voleva
dire maggior carbone movimentato. Una volta aperta la strada era inevitabile giungere
alla conclusione che dividere il lavoro in fasi costituenti parcellizzate
all’estremo avrebbe determinato grandi vantaggi produttivi. Cosa altro poteva
volere il capitalista se non potenziare la capacità produttiva del lavoro a
parità di salario al fine di incamerare la differenza e aumentare i suoi
profitti?
Taylor finì per
essere il dio dei capitalisti e il diavolo dei lavoratori verso i quali
organizzava solo catene. Al lavoratore, dopo il prodotto del suo lavoro, veniva
sottratta la conoscenza, i processi intellettuali che definivano la sua
capacità professionale ora incorporata ad ogni passo sempre di più nella
macchina. Andava sottratto anche il
controllo sulla sua intensità di lavoro. Dove era possibile determinandola con
il ritmo che poteva imporre la macchina. Diversamente con la creazione di un
incentivo che, a partire dallo studio esatto del tempo di una fase di lavoro,
pagasse il suo miglioramento. Era nato il cottimo.
Ma una volta
scomposto il lavoro in finissime particelle studiate in ogni dettaglio
diventava possibile concatenarne il ri-assemblaggio a formare un prodotto
finito. La catena di montaggio meccanica. Il Fordismo dal nome del primo che la
organizzo.
Il Taylorismo, il
Fordismo, sono stati il palo della tortura del lavoro a partire dalla loro
fondazione.
Eppure forse qualcosa
ci fa velo.
Non c’è dubbio che il capitale
abbia soggiogato a sé e alle sue esigenze di estrarre profitto la via aperta
dalla scienza e dal suo metodo di procedere per divisioni. Eppure c ‘era in ciò
qualcosa di ineluttabile sottostante. Ciò fu colto dalle forze di tradizione
marxista agli albori del nascente movimento operaio. Non a caso la più
importante rivendicazione alle origini partì dal tentativo di portare sotto
controllo operaio l’orario di lavoro. Le 8 ore, che furono la prima conquista
della rivoluzione bolscevica estesa poi ad occidente dalle lotte del lavoro e
dei partiti socialisti. In quella rivendicazione si comprendeva che intanto
andava posto un argine allo sfruttamento della intensità di lavoro. Si prendeva
atto che la sussunzione nelle macchine del vecchio sapere necessario alla
produzione, nonostante il terribile mondo che apriva davanti al lavoro, non era
qualcosa di facilmente aggirabile. La sua soluzione implicava un salto enorme nella
scienza e nello sviluppo delle forze produttive insieme alla soluzione della
contraddizione principale. I rapporti di proprietà e l’appropriazione del
prodotto da parte del capitalista. Il suo diritto di decidere, in nome della
proprietà, come si lavora e per fare quale prodotto. Anzi al fine null’altro
che questo è la proprietà. E mai come oggi, nel modo aperto dallo sviluppo
delle capacità computazionali ciò si evidenzia.
Ma torneremo in
materia. Prima dobbiamo ancora scavare.
Il mondo produttivo aperto
dallo sviluppo degli albori della industria e poi dalla applicazione al
processo produttivo delle scoperte della fisica maturate fino alla fine
dell’1800 avevano caratteristiche comuni a quasi tutti i settori. Era un mondo
sostanzialmente analogico. L’energia applicata alla rotazione di un asse alla
base del funzionamento di ogni macchina poteva essere controllata solo entro
certi limiti. La rotazione dell’asse era rigidamente vincolata dall’uso di
ingranaggi come metodo, meccanico, per controllare velocità e spostamento dei
componenti della macchina. I sensori da cui trarre informazioni erano pochi,
rudimentali e primitivi. I calcoli permessi dallo sviluppo della matematica
permettevano di agevolare la progettazione del prodotto e di gestire meglio i processi
amministrativi necessari al funzionamento di grandi aggregati produttivi. Il
calcolo infinitesimale sviluppatosi a partire dai lavori di Newton e Leibnitz
permettevano di imitare, in matematica, il continuo con il discreto e di
progettare meglio i prodotti. Ma poi il nostro caro mozzo poteva essere
prodotto salo da un operaio che per analogia con il pezzo desiderato, al
tornio, muoveva l’utensile, sulla slitta montato, attraverso il controllo
tramite manovella di due assi di lavoro ortogonali fra loro.
Questo mondo produttivo
analogico subisce ovviamente vari sviluppi e perfezionamenti ma permane nella
sua essenza fino alla fine degli anni ‘70 del 1900.
Ma che ne è del nostro algoritmo
abbandonato a procedura nei processi matematici elaborati dagli antichi? Esso
subisce una sua traduzione materiale per la prima volta nel 1801 ad opera di Joseph-Marie
Jacquard. Questi applica alla più antica macchina forse inventata dall’uomo, il
telaio per tessere, una serie di schede perforate, (scorrono una dopo l’altra
come le cartucce nel nastro di una mitragliatrice) che, impedendo o
permettendo, a seconda della presenza o meno del foro sulla scheda, il
movimento di un perno che comandava il sollevamento dei licci che controllavano
l’ordito, rendeva possibile automatizzare la composizione artistica del
tessuto.
Questa invenzione fu
così geniale che ancora alla fine degli anni 70 del secolo scorso i computer
che tenevano la contabilità in grandi aziende venivano comandati, per le
istruzioni da eseguire, da una scheda perforata.
L’estensione di questo concetto
ad altri tipi di lavorazioni, con adeguate modifiche, portò a forme di
automatismi basati su semplici tecnologie (fine corsa, camme, azionamento di
interruttori di comando o di relè, i più famosi quelli chiamati a tre scambi,
che ancora negli anni ‘70 erano oggetto di studio nelle scuole professionali in
quanto permettevano di combinare la loro apertura e chiusura in sequenze che
permettevano, per esempio, l’avvio di motori o attuatori). L’algoritmo, da
concetto astratto si era fatto materia ma non poteva volare. Limitazione della
potenza di calcolo, della sensoristica, della capacità di controllare le
variabili che determinano lo sforzo e il numero di giri di un motore elettrico,
da cui dipende il controllo fine della rotazione attorno ad un asse, impedivano
alla radice un salto nello sviluppo di macchine automatiche. Il nostro mozzo al
tornio continuava ad essere caricato da un lavoratore che ne eseguiva poi la
lavorazione. Precisione ed automatismi del tornio erano migliorati ma al fine
il tornitore era ancora decisivo.
L’assetto tecnologico
e i suoi sviluppi alla base dell’industria moderna determinarono in realtà
anche la strutturazione sociale, del diritto, delle forme politiche.
Le vecchie corporazioni
che raggruppavano i vecchi artigiani per mestiere cessarono la loro funzione.
Quegli artigiani, diventati operai non più in possesso del loro prodotto, delle
competenze complete per farlo, del controllo sulla intensità del loro lavoro,
vissero tutto ciò con profondo senso di ingiustizia e si misero insieme
fondando i primi sindacati che non a caso è una parola (sin-diche) che
significa insieme-giustizia.
Ma qualcuno vide più lontano.
Era nata l’alienazione su vasta scala. Si era aperta una contraddizione
fondamentale nel vivere umano. Non si trattava solo della espropriazione del
prodotto del lavoro.
Che cosa distingue
l’operaio di tempi moderni di Charlie Chaplin dal giocatore di tennis a
Wimbledon? In fondo entrambi consumano energia in un gesto ripetitivo. Buttare
la palla dall’altra parte nel caso del tennista. Ma nel giocatore ogni suo
processo intellettuale e ogni suo gesto fisico è concentrato e integrato nello
sforzo di cogliere ogni variazione minima del processo a cui è dedito, al fine
di raggiungere il risultato; e goderne come il primo cacciatore godé quando con
lo stesso processo catturò la preda.
Nel lavoro moderno
aperto dalla industrializzazione definizione dell’obbiettivo, processo
intellettuale per raggiungerlo, definizione dello sforzo, possesso finale del
risultato, sono tutte fasi separate, scomposte, spezzettate e divise. Decise da
altri. Il controllo della variazione in particolare è l’oggetto di ogni studio
possibile al fine di espropriarlo dal lavoro per assumerlo nella macchina. Più
potente è la macchina più potente questo esproprio.
Questo tema, ben
presente alle origini del movimento operaio nei suoi dirigenti e teorici,
sembra oggi desueto e superato. È diventato vecchia anticaglia proprio quando
dispiega tutta la sua drammatica potenza. Che svista!!!!
Già Marx disse che il
lavoro non sarebbe mai potuto essere un gioco. Ma aveva luminosa la
consapevolezza della contraddizione insanabile aperta nel vivere umano. Essa
non è né aggirabile né chiudibile. Anzi va riaperta come terreno concreto anche
di azione individuandone le forme moderne che la connotano.
Ma torniamo ancora
indietro. Il passaggio dalle corporazioni al sindacato avvenne mantenendo un
punto comune organizzativo fondamentale.
La unione sulla base della appartenenza
a processi produttivi simili nei quali la materia prima lavorata, il processo
produttivo e il prodotto formavano un qualcosa di omogeneo nei suoi caratteri
distintivi. Meccanici, tessili, chimici, edili, falegnami, grafici, ecc. erano
i nomi di un prodotto, di un processo ma anche di una forma di organizzazione
del sindacato. La categoria. Ciò aveva una motivazione profonda. I processi
produttivi e la loro tecnologia nonché i processi intellettuali per eseguirli
erano effettivamente classificabili in qualche marniera secondo quegli schemi.
E poiché ci si aggrega innanzitutto fra simili inevitabile diventava la
connotazione dei limiti della forma organizzativa. Le istituzioni che il
sindacato creò per rappresentare il lavoro furono al fondo le seguenti:
·
la creazione di una regolamentazione nazionale
per settori omogenei che regolasse i diritti e i doveri del lavoratore. Il
contratto nazionale di lavoro.
·
la contrattazione dei cottimi, delle pause, come
via per controllare la erogazione della intensità del lavoro.
·
la riduzione dell’orario di lavoro come via per
salvaguardare uno spazio libero di vita ad un lavoro sempre più espropriato in
tutti i suoi aspetti.
·
la ricomposizione di fasi di lavoro, la creazione
di gruppi, come via per limitare gli effetti più alienanti della divisione del
lavoro. Unito ad un intervento sui processi formativi.
·
la divisione dei lavoratori in classi omogenee,
per caratteristiche di capacità professionali, dalle quali far dipendere le
loro differenziazioni salariali. L’inquadramento professionale.
Un salto di genio fu
fatto in materia a cavallo dagli anni ‘70 quando si assunse non più la qualità
specifica della formazione professionale, del sapere, (inevitabilmente diversa
a seconda di quello che fai) necessaria al lavoro per connotarne la
classificazione, ma la quantità di tempo e di impegno intellettuale consumata
per raggiungerlo.
Era nato l’inquadramento unico. Il
tornitore specializzato e il ragioniere potevano stare nel medesimo livello
professionale e di retribuzione base, (all’interno della categoria definita dal
contratto collettivo nazionale di lavoro) perché si presupponeva che
all’incirca stesso dispendio di tempo e di impegno intellettuale doveva essere
consumato per raggiungere la competenza necessaria a fare un lavoro che
rimaneva qualitativamente differente.
La costruzione di
diritti politici dentro l’azienda. L’articolo 18, lo statuto di lavoratori, il
massimo punto di arrivo.
Questo dentro la
fabbrica.
All’esterno, il terreno della
produzione e della riproduzione del lavoratore l’azione si concentrò sullo
svincolare gli aspetti che determinano queste condizioni dal mercato. Cure
sanitarie, pensioni, formazione scolastica, cosi decisive nel produrre il lavoratore
e la sua discendenza, diventarono il terreno di una lotta al fine di rendendole
pubbliche, liberandole dalla differenziazione che, private e lasciate al
mercato, avrebbero determinato fra i lavoratori.
In fondo ad oggi qui
stiamo e attorno a queste questioni subiamo arretramenti (tanti) e avanzamenti
(pochi).
La tesi che qui
esponiamo è che i cambiamenti determinati nella e dalla tecnologia
computazionale, Il dominio di questa da parte dell’algoritmo, le trasformazioni
nella organizzazione del lavoro e nel processo produttivo che connotano
l’erogazione di lavoro oggi, abbiano minato alla base le forme organizzative e
le istituzioni contrattuali e di diritto costruite nel 900.
Il vecchio mondo
analogico alla base della tecnologia e della organizzazione produttive aperta
dalla rivoluzione industriale comincia a morire quando i fisici di fine
ottocento e prima parte del secolo ‘900 scoprono che il mondo fisico non è
continuo. Esso è discreto. Fatto di quantità elementari di energia fra cui è
possibile solo il salto non la variazione infinitesimale. Tempo e spazio non
esistono da soli ma solo in rapporto reciproco. Esiste poi una velocità limite
nell’universo. Quella della luce nel vuoto. La scoperta che il mondo non è
continuo ma discreto è la più formidabile e controintuitiva scoperta fisica di
tutti i tempi.
La conoscenza dei
processi fisici che questa a reso possibile ha del prodigioso. Lo studio di
come questo discreto si manifesta, delle assurdità intuitive a cui da luogo,
dai rapporti matematici che regolano la manifestazione della natura a livelli
atomici, ha aperto un modo di straordinario progresso tecnico.
Fermiamo qui lo sviluppo della descrizione di
questo mondo nuovo. Ma traiamo però subito la conclusione. Lo studio della
materia ai livelli più infimi e l’acquisizione della capacità di manipolarla a
quei livelli ha portato a sviluppi tecnologici che possiamo riassumere cosi:
·
il movimento attorno all’asse è diventato
controllabile a piacere.
·
la sensoristica si è espansa a livelli
inimmaginabili solo qualche decennio fa.
·
la natura discreta, i quanti, alla base della
realtà fisica e la capacità di manipolarla ha permesso di manipolare i numeri a
scale sovrumane e sempre più potenti, con macchine dal basso consumo energetico
e miniaturizzate.
L’algoritmo che
avevamo lasciato materializzato primitivamente in ingombranti processi
meccanici ho potuto decollare nella sua potenza grazie a una scala di
rappresentazione fisica nei suoi passi elementari che ormai quasi coincide con
la scala atomica.
Il mondo produttivo
che si è aperto è squadernato ormai davanti a noi.
Le macchine hanno potuto incorporare sapere operaio a scala mai vista.
La movimentazione dei pezzi ha potuto diventare automatica.
I processi di amministrazione hanno
potuto essere automatizzati in computer che svolgono in modo automatico,
guidati da algoritmi che ricostruiscono i passaggi di calcolo in sequenza
necessari a definire il risultato. La progettazione ha potuto avvalersi della
potenza di calcolo per non solo definire il prodotto, ma anche per simularlo, definirne
le fasi di lavorazione da ordinare alle macchine che dovranno lavorare i
componenti e assembrarli.
La possibilità di
algoritmizzare una quantità enorme di processi produttivi, di progettazione, e
amministrativi guidando una enorme potenza di calcolo. La costruzione di una
rete di comunicazione mondiale sulla quale quei calcoli possono viaggiare alla
velocità limite dell’universo, la possibilità di trasformare perfino relazioni
sociali e strutturazioni psicologiche in un problema di calcolo ha cambiato
alla base tutta l’organizzazione sociale e produttiva moderna. Ha cambiato il
lavoro alla radice.
Ma qui possiamo già
intuire la nuova realtà del lavoro.
Oggi il lavoro si
divide in realtà in tre categorie.
·
coloro che servono la macchina. Ancora necessari
fino a quando i limiti della sensoristica e della manipolazione non
permetteranno l’implementazione di processi automatici di sostituzione. Per
macchina non si intende qui la macchina utensile, il telaio, ecc. si intende un
processo governato dall’algoritmo.
·
il lavoratore Amazon che riceve l’ordine di
acquisto sul palmare di cui è stato dotato che gli dice dove trovare il
prodotto da confezionare per la spedizione serve una macchina. Le capacità
professionali chieste a questo genere di lavoratore sono infime. Pura
sostituzione umana dei limiti dei processi di automazione. Ma comunque totalmente
assorbito e trasformato in componente di un processo meccanizzato.
Per questi
lavoratori, spogliati di quasi tutto ciò che caratterizza il lavoro umano,
l’intensità del lavoro rappresenta la questione fondamentale. L’impresa per cui
lavora farà di tutto per estrarla oltre i limiti dell’umano. I processi
produttivi moderni possono fare a meno del cottimo.
La possibilità di programmare il
lavoro umano stesso in modo algoritmico, come si programma un computer o un
robot, permettono di sostituire il comando dell’algoritmo e della macchina da
servire ad ogni altra forma di controllo della erogazione della intensità del
lavoro.
·
coloro che controllano la macchina. Una volta il
manutentore era l’élite operaia della fabbrica. Doveva avere capacità
professionali elevate ed era padrone della intensità di lavoro che erogava.
Oggi il manutentore, sempre più, non è neanche più un
dipendente a fianco degli altri lavoratori.
La progettazione della macchina
che dovrà riparare contiene in sé anche la programmazione degli interventi
manutentivi.
La macchina è capace di
autoanalisi e di trasmissione in qualunque luogo desiderato dei risultati della
sua autodiagnosi.
La manutenzione consiste nella
sostituzione di componenti. Comunque continua ad essere necessaria una
preparazione professionale elevata che permetta di comprendere il sistema su
cui si interviene.
·
coloro che progettano la macchina, il prodotto.
Questi devono padroneggiare competenze spesso interdisciplinari. La
progettazione del prodotto quasi coincide con quella del processo produttivo.
Concepito come un tutt’uno con un enorme sistema algoritmico.
A sua volta questi possono
essere divisi individuando la componente capace di pensare e implementare i sistemi
computazionali, di calcolo e algoritmici, di software, necessari al sistema.
I processi
amministrativi, che occupavano così tanti impiegati fino a pochi anni fa, sono
stati assorbiti dalla automatizzazione computerizzata delle loro procedure. E
siamo solo all’inizio.
Ma la cosa più
interessante, a nostro avviso, è che i processi produttivi, la loro tecnologia,
non ha quasi più un legame con il prodotto e la materia prima.
Tagliare lamiera per fare una
nave, per fare la macchina del caffè che bevi la mattina, per tagliare la
stoffa del vestito che porti, per tagliare la vetroresina del casco del
motociclista o i componenti di un mobile Ikea si basa fondamentalmente sugli
stessi principi tecnologici e richiede per essere eseguita le stesse qualità
professionali. Il nostro mozzo, quando viene definito dal progettista, porta
con sé gli ordini per la macchina che dovrà tornirlo, quelli per il cambio
automatico dell’utensile, quelli relativi a velocità di taglio e
caratteristiche dell’utensile, le istruzioni del robot che ne movimenterà il
carico sul tornio, i criteri di qualità e tolleranza che ne definiscono lo
scarto, ecc.
Ma la stessa
tecnologia sarà alla base della costruzione della gamba di legno di un tavolo.
O della stampa automatica di un progetto. E del meccanismo di puntamento del
cannone di un carro armato. Da cui poi in realtà deriva per estensione.
I processi di montaggio di
componenti per formare il prodotto finale ugualmente rispondono alle stesse
tecnologie computerizzate e agli stessi limiti di queste, ma anche diventano
più flessibili superando il vecchio vincolo meccanico della catena di montaggio.
Quale è poi la
differenza nei processi amministrativi delle fabbriche moderne. Nessuna. Essa
non ha più alcun legame con il settore merceologico.
Si pensi alle banche.
Oggi non serve più neanche andarci se non in specifici casi.
La categorializzazione del lavoro (meccanici, tessili,
chimici ecc.), sin dalla prima rivoluzione industriale, è stata una costruzione
politico sociale di straordinaria importanza: ha prodotto una identità sociale,
un modello di solidarietà, uno status professionale. La categoria è stata la
forma, l’idealtipo per dirla con M. Weber con cui è stata condotta la lotta di
classe dell’ultimo secolo
Se tutto questo è la
realtà, o almeno la tendenza, allora si capisce perché abbiamo perso la
rappresentanza del lavoro.
Il contratto nazionale su base
merceologica, più che unire il mondo del lavoro ora lo divide. L’inquadramento
unico professionale non descrive più la nuova realtà dei processi produttivi e
non struttura più il lavoro e i criteri retributivi al suo interno.
L’intensità del lavoro e la sua
estrazione è uscita da ogni controllo e strategia di intervento. Salvo
esplosioni di lavoratori che si ribellano, come in Amazon, guidati da forze
sindacali autonome il cui unico merito è di cogliere la durezza del lavoro
presente. Di nominarla. Ma incapaci di una strategia.
Le tecnologie informatiche, l’algoritmo, stanno
ridefinendo processo di lavoro e lavoratori, struttura della occupazione e
degli occupati.
Le macchine - sostiene un esperto - offrono agli uomini l’opportunità
di concentrarsi sempre più sulla parte “poietica” del lavoro, vale a dire
quella che richiede immaginazione, sensibilità e creatività e che non è quindi
programmabile.
Ma le macchine possono estendere al cervello il dominio
che il taylorismo puntava ad esercitare solamente sui corpi.
Le rivoluzioni tecnologiche - in quanto fatti
irreversibili - possono sempre servire fini politici e sociali differenti.
Persino opposti.
Sorgono quindi alcune domande fondamentali, sempre più
impossibili da ignorare o da aggirare. Da qualsiasi burocrazia.
a.
Tali tecnologie rendono possibile un nuovo rapporto tra
autonomia e dipendenza del lavoro. Passare dalla mano d’opera al cervello
d’opera. Come lavorare allora al superamento
dell’antica frattura tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, reso possibile dalle
tecnologie della prima rivoluzione industriale?
b.
Tali tecnologie svuotano in maniera accelerata la vecchia categorializzazione
del lavoro, ereditata dalle precedenti rivoluzioni tecnologiche. Come passare
allora da una categorializzazione del lavoro su base merceologica ad una nuova
categorializzazione del lavoro su base tecnologica? Come passare quindi ad una
strategia e struttura contrattuale conseguente?
c.
Tali tecnologie rendono obsoleta l’antica strategia centrata - tutto
sommato - sulla ricomposizione delle mansioni. Come riordinare allora una
strategia in ogni luogo di lavoro in grado di affrontare le contraddizioni che
le nuove tecnologie provocano nel loro affermarsi, e quindi su quali parole
d’ordine organizzare una azione permanente sulla concreta organizzazione del lavoro?
Salute, intensità del lavoro, reperibilità ecc.?
d.
Quali politiche pubbliche, quali Istituti, quali Agenzie, in
definitiva quale rete di “Proprietà Sociali”, - Gramsci direbbe Casematte -
costruire o ricostruire per rifondare la reale praticabilità di diritti dai
quali deriva la potenza politica e sociale del Lavoro? (a partire perfino dai
più elementari come ferie, malattia, infortuni, congedi parentali, ecc. oggi
resi inesigibili per tanti che pur svolgendo un lavoro in realtà eterodiretto
sono nel regno di nessuno del lavoro autonomo, profondamente ridisegnato
dall’algoritmo in quanto a potenza di controllo e subordinazione reale.
e. Alla luce dell’algoritmo va riscritta,
l’intera ragion d’essere del Sindacato, dalla strategia contrattuale, alla classificazione
professionale, al contratto nazionale. (Il dipartimento lavoro e affari sociali
della OCSE stima in Italia l’esistenza di 868 contratti di lavoro nazionali). Ad un nuovo Statuto del Lavoro, alla stessa
struttura organizzativa del sindacato.
La sua dimensione categoriale
appartiene al meglio del mondo produttivo analogico ma è un residuo
insostenibile a rappresentare e unificare il lavoro al tempo dell’algoritmo.
Bisogna riaprire uno studio
profondo della organizzazione del lavoro che vada oltre gli schemi che pure
sopra abbiamo abbozzato e raffinarli. Ma ciò non sarà possibile né produttivo
se, prima nei concetti e poi perfino nel linguaggio, non saremo percepiti dai
nuovi lavoratori come chi, in qualche modo, li “intende”. Inevitabilmente solo
dopo questa connessione matureranno “saperi sindacali” ulteriori, strategie
rivendicative, anche aziendali, capaci di fornire vie di contrattazione.
Infine bisogna ricostruire una egemonia culturale sul fatto che
salute, sanità, scuola formazione, pensioni, devono rimanere fuori dalle leggi
di mercato.
Primo perché le nuove tecnologie permettono una loro organizzazione
meno costosa, molto meno costosa, di quella che il mercato e le sue leggi
possono offrire.
Secondo perché il lavoro liquido, spappolato, diviso, saltuario, ha
ancora più bisogno di queste strutture unificatrici oltre che di giustizia e
uguaglianza sociale.
Gravi cedimenti sono già avvenuti in materia. Il welfare aziendale,
sanita e pensioni integrative non riportano la rappresentanza del lavoro a chi
ne vuole la sua emancipazione.
Sembra incredibile che nessuno rifletta sul fatto che tali politiche da
una parte implicano un uso della tassazione pubblica regressivo - ( i
lavoratori più deboli, senza avere la forza di costruire il loro welfare
privato aziendale defiscalizzato, finanziano con le loro tasse i fondi
previdenziali e sanitari dei più previlegiati e forti) dall’altro, vedi
pensioni integrative, l’uso delle risorse dirottate a questo fine - con il
sostegno fiscale accennato - è stato assorbito dal sistema finanziario nelle sue spire di
finanza speculativa.
L’algoritmo è destinato a diventare uno spartiacque nella vicenda storica
del Lavoro, nella sua organizzazione e nella sua potenza sociale e politica.
Luigi Agostini
Luigi Agostini
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