18 febbraio 2018

Recensione film: LA FORMA DELL'ACQUA regia di Guillermo del Toro


Con Sally Hawkins, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer, Doug Jones, Nick Searcy, USA 2017. Scenografia di Paul D. Austerberry,  effetti speciali di Mike Hill, musica di Alexandre Desplat.

 



 

 
Un film cinefilo

The Shape of Water, titolo originale del film, è una favola fantasy in versione grottesca che narra la storia d’amore tra “diversi”. Sembrerebbe di conoscere già la storia della “bella e la bestia” ma Del Toro la racconta in un modo tutto suo, confezionando un film omaggio al cinema stesso. Il film, è come un sogno, ma come il sogno può essere anche vissuto come un incubo. Siamo a Baltimora nel 1962 in un laboratorio governativo, un bunker segreto. Elisa – interpretata dalla bravissima Sally Hawkins - è una giovane donna delle pulizie muta, una trovatella che era stata abbandonata da piccola e cresciuta poi in un orfanatrofio. Lui è un uomo-anfibio, uno strano essere trovato in un fiume in Amazzonia, che gli scienziati americani degli anni ’60 pensano di utilizzare per il lancio nello spazio, dopo che i Russi avevano manato in orbita la cagnetta Laika. In quegli anni, infatti, vigeva la “Guerra Fredda”, la competitività tra Unione Sovietica e Stati Uniti era molto accesa e il mondo della scienza era pieno di spie: i Russi attentavano all’esito positivo degli Americani, mentre questi ultimi erano in affanno per raggiungere i successi degli antagonisti comunisti. Negli anni ’50 e ’60 il cinema americano brulicava di “creature” come ad esempio Il mostro della laguna nera (anch’esso proveniente dall’Amazzonia) di Jack Arnold del 1954, su cui ha tratto ispirazione il regista Del Toro che ha ubicato la vicenda proprio in quegli anni.

In questo contesto, al laboratorio viene portata, dunque, una creatura ricoperta di squame e dai doppi polmoni - per respirare sia in aria sia in acqua - per essere usato come cavia. Gli scienziati tengono quest’uomo-pesce legato con delle catene in una grande vasca piena d’acqua, ma viene maltrattato e seviziato da Richard Strickland, il cattivissimo agente della CIA. Elisa è intenerita da questo essere che soffre in solitudine, che non parla ma che, secondo lei, sicuramente avrà dei sentimenti. Di nascosto da tutti lo corteggia, gli offre delle uova (simbolo della vita) hard-boiled, gli fa sentire dei brani  musicali di Benny Goodman e Glenn Miller e gli insegna il suo linguaggio gestuale. Nasce man mano un sentimento che va al di là della compassione perché lui, non solo le fa da specchio, ma impara perfino a comunicare con lei.

Nel frattempo sia la CIA sia il KGB lo vogliono morto quindi lei decide di liberarlo per salvargli la vita. Coadiuvata da un gruppetto di “diversi”, ne organizza la fuga. E questi personaggi di contorno nella favola, sono forse tra le cose più belle del film. Octavia Spencer (ormai specializzatasi in queste parti) è l’inserviente nera proletaria, maltrattata dal marito – i suoi racconti ricordano i blues di Billy Holidays – mentre lo splendido Richard Jenkins è il vicino di casa Giles, una sorta di Norman Rockwell in versione “sfigata”: un pittore, tendenzialmente omosessuale e in cerca di compagno, che raffigura l’American way-of-life nei suoi dipinti, i quali però vengono, a loro volta, superati dalla fotografia. Michael Stuhlbarg è il Dott. Robert Hoffstetler, lo scienziato-spia russo tormentato dalla conflittualità tra essere un bravo patriota che deve eseguire gli ordini e un bravo scienziato che vuole laicamente conoscere e imparare. Michael Shannon, invece, è l’agente della CIA che rappresenta la caricatura dell’uomo bianco, razzista, ambizioso e assetato di potere, descritto come un tipico personaggio della middle-class, vive in suburbia con la moglie bionda e cotonata (come si usava in quegli anni) e i figli ben pasciuti e un po’ cicciottelli.

Il film ha un bel ritmo in crescendo - e un ottimo montaggio - specialmente nella prima parte, con una suspense da vero thriller, mentre la perde un po’ verso il finale con l’affastellarsi di cattivi e cattivissimi.

Con colori accesi e virato sul ciano, il film La forma dell’acqua è pieno di citazioni e riferimenti al cinema e di attenta iconografia di quella epoca, dalle prime pubblicità ai billboards stradali, dal design alle Cadillac. La televisione e il cinema – considerati media mitopoietici - passano continuamente brani che commentano alcuni passaggi del film, e non è un caso la protagonista abiti proprio sopra una sala cinematografica. La TV rigorosamente in bianco e nero passa Il piccolo colonnello, un musical del 1934 di David Butler, con Shirley Temple bambina che duetta con Bill “Bojangles” Robinson - considerato il più esperto ballerino di tap dance - e che, con i suoi famosi riccioli biondi, simboleggia l’età dell’innocenza in cui vive ancora la giovane muta. In TV viene mostrata anche Betty Grable nel numero “Pretty Baby” tratto da L’isola delle sirene di Walter Lang del 1943. Nel cinema sotto casa, invece, è proiettato un film biblico di Henry Koster del 1960 La Storia di Ruth che ha delle analogie con quella di Elisa. L’onnipresenza della musica (del pluripremiato Alexandre Desplat) con il suo ruolo sentimentale ed educativo, è un altro elemento importante del film. Memorabile è il ballo visionario in bianco e nero tra i due innamorati sulle note di You’ll never Know, brano reso famoso sia da Alice Faye sia da Frank Sinatra.

Il film non parla solo dell’amore platonico, ma anche del lato carnale, il regista messicano descrive il sesso e fa sprizzare il sangue dalle ferite. Tutto è legato all’acqua (simbolo femminile della maternità e della nascita): lì lei si masturba, lì lui vive e respira, mentre la pioggia potrebbe ridonargli la libertà.

Guillermo Del Toro è riuscito a fare un film di fantascienza con un budget modesto e risparmiando sugli effetti speciali mentre Mike Hill, l’artista britannico che si è occupato appunto degli effetti speciali, dichiara in un’intervista che ha lavorato per tre anni sulla figura dell’uomo-pesce che doveva essere sì una sorta di “mostro”, ma non avrebbe dovuto spaventare troppo, piuttosto ispirare tenerezza.

Già vincitore del Leone d’oro a Venezia, The Shape of Water è candidato a ben 13 Oscar.

 
 

Ghisi Grütter

 

 

 

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