1 luglio 2018

Messico, la speranza si chiama Amlo da Altre Notizie.org



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  • Quella di oggi potrebbe essere la volta buona per Andrès Manuel Lopez Obrador, per tutti AMLO. Sessantacinque anni, nato nello Stato di Tabasco, ex sindacalista e nel 2000 eletto sindaco della capitale, AMLO è il candidato di Morena, il partito di sinistra da lui creato con una scissione del PRD (che ha subito identica metamorfosi del PD italiano divenendo un partito di centro ndr).

    Coalizzatosi con la formazione laburista del PT ed un altro partito di orientamento moderato e cattolico, il PES, è fortemente in testa in tutti i sondaggi. Ci sono infatti tra lui e il primo dei suoi avversari almeno 23 punti - Josè Antonio Meade, oscuro quanto furbo e rapace funzionario della casta messicana del PRI - e ancor maggiore - circa 30 punti - è la distanza con Ricardo Anaya, candidato del PAN.

    In ogni paese del mondo una distanza così importate nei sondaggi concentrerebbe l’attenzione sulla misura della vittoria e sui futuri equilibri parlamentari, ma in Messico non è mai bene dare per scontato nulla, meno che mai in termini di alterazione del procedimento democratico elettorale. Prova ne siano non solo i due giganteschi brogli (2006 e ancor più nel 2012) organizzati proprio ai danni di AMLO e che consentirono a Enrique Pena Nieto (prodotto di Tele Visa, che è una delle gambe del tavolo su cui si poggia il sistema dominante) di riportare il PRI al governo del paese.

    La presenza massiccia di osservatori (30.000 esperti nazionali e oltre 900 internazionali) può dimostrarsi un deterrente verso i brogli ma le decine di migliaia di schede circolanti già incontrate non promettono niente di buono. A sottolineare la particolare importanza di questa scadenza elettorale possono essere utili due dati: secondo fonti indipendenti almeno 30 milioni di messicani hanno ricevuto offerte di voto di scambio e ben 133 esponenti politici (di cui 48 candidati) hanno perso la vita dall’inizio della campagna elettorale.

    Proprio la corruzione sistematica e articolata ad ogni livello del potere politico ed amministrativo è l’altro aspetto sul quale AMLO intende incidere, visto che essa ha reso il Messico un paese a sovranità limitata dall’interno oltre che dall’estero. Cosa fa del governo del Messico una posta così elevata per gli appetiti di una classe dirigente corrotta?

    Basta fare l’esempio del Distretto Federale, dove ha sede Città del Messico, la capitale. Solo tra il 2013 e il 2014, le inchieste indipendenti hanno provato come i fondi statali e federali fossero amministrati per riempire le tasche dei funzionari del sistema. Sette miliardi e 670 milioni di Pesos sono stati spesi per contratti di servizio illegali con 186 imprese; si tratta di contratti finti, fantasma, perché di queste 186 ben 128 non dispongono di dimensione societaria e infrastrutture abili per l’ottenimento di appalti pubblici e le altre, semplicemente, non esistono.

    La differenza fondamentale tra il programma di AMLO e quello delle altre forze politiche lo si trova proprio nella lettura della crisi messicana e nelle ricette. Per il candidato della sinistra la priorità risiede nello smantellamento delle politiche sociali imposte dalle destre e dalle politiche di contrasto al crimine organizzato. Sono le due maggiori piaghe che infestano il Paese e che lo hanno posto ai vertici delle più macabre classifiche sulle drammatiche violazioni dei diritti umani e sull’esclusione sociale.

    Proprio questa, nella lettura di AMLO, è la causa principale dell’arruolamento di massa nelle organizzazioni criminali, ormai in grado per numero di appartenenti (molti dei quali provenienti dalle forze di polizia ndr), estensione dei suoi tentacoli e volume dei capitali che muove, di condizionare in forma determinante l’operato del potere politico. Per AMLO lo slogan è “abrazos y no balazos” - abbracci e non pallottole - e prevede nei confronti dei Cartelli non più solo operazioni militari di scarsa efficacia ma politiche sociali in grado di ridurre al minimo l’appeal che il denaro dei narcos esercita sulla povertà cronica delle maggioranze e che, in alcuni Stati, arriva a colpire il 60 per cento della popolazione.

    Su quella povertà cronica, che favorisce il permearsi della corruzione in ogni strato della società, i narcos costruiscono i loro piccoli eserciti, perché quando l’alternativa è tra la morte per fame o l’arruolarsi in un Cartello, è inutile pensare di affrontare la questione solo in chiave militare. Il controllo del territorio è dato proprio dal consenso generale di cui alcuni Cartelli godono proprio per la capacità di rivolgersi ai settori più poveri e, contemporaneamente, di proporsi come governo, come anti-stato dove lo Stato non c’è.

    L’intervento dello Stato, nell’idea di AMLO, deve caratterizzarsi soprattutto nel disincentivare l’arruolamento e, anzi, nell’incentivare l’abbandono dei Cartelli da parte dei livelli minori di affiliazione. Da qui le due proposte parallele: amnistia per i reati minori e legalizzazione, programmi di studio e lavoro per recuperare i giovani e allontanarli dalla criminalità. Becarios y no sicarios (borsisti e non sicari) è la sua parola d'ordine.

    Contemporaneamente, raddoppio delle pensioni e dei salari minimi, programmi di assistenza sociale e d’intervento statale nell’economia destinati a ridurre i livelli di povertà assoluta e ad aumentare l’occupazione. Il principale di questi sarà una mega opera: la costruzione della rete ferroviaria che attraversi le due sponde del paese, dall’Atlantico al Pacifico e che nei calcoli dovrebbe produrre una quota pari al 2,5% di incremento del PIL oltre che di decine di migliaia di posti di lavoro.

    Un’impostazione molto diversa, per non dire opposta, della “guerra al narcotraffico”, iniziata dal Presidente Calderon e proseguita da Pena Nieto, che in realtà non ha avuto nulla della guerra al crimine; è stata piuttosto il detonatore per una gigantesca operazione di riassetto degli equilibri interni alle organizzazioni dei narcos, che con l’uscita di scena di alcuni dei suoi protagonisti (da ultimo El Chapo Guzman) ha consentito scissioni e costituzione di nuove formazioni costate migliaia e migliaia di morti e che hanno trasformato il Messico da paese distributore a primo paese produttore di stupefacenti.

    Del resto, la politica estera ed interna del Messico è strettamente intrecciata a quella degli Stati Uniti, con i quali il rapporto di subalternità economica e nelle politiche di sicurezza è il dato saliente, al punto che dalla gestione della Pemex fino alla penetrazione della DEA pare che il Messico abbia ridotto la sua indipendenza nei confronti del gigante del Nord solo nella sua rinomata gastronomia.

    E anche in queste elezioni si gioca, appunto, la partita per eccellenza della politica estera messicana. E’ quella con Donald Trump, che del Messico ha fatto un simbolo per la sua xenofobia con la quale si è conquistato il consenso dei segregazionisti e dei razzisti negli stati del Sud degli USA. Amlo, che certamente non è uomo da linguaggio sfumato, ha definito il rapporto di Trump con i messicani “simile a quello di Hitler con gli ebrei" ma, aldilà della ovvia esagerazione retorica, proprio l’appello al nazionalismo messicano contro los yanquis, unito alla battaglia contro la corruzione e per una rinascita economica e sociale, ha determinato molto della sua impennata nei sondaggi.

    Una vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador rappresenterebbe una boccata d’ossigeno per la sinistra latinoamericana, in qualche modo una inversione di tendenza dopo quanto avvenuto in Argentina. Amlo ha cultura socialista ed indipendentista ed appartiene alla famiglia progressista di sinistra del continente latinoamericano e, in questo senso, una sua vittoria non sarebbe una buona notizia per la politica estera di Trump, che ha nel rapporto con il Messico uno dei terreni più insidiosi.

    Ma certo favorirebbe ulteriormente il reciproco disimpegno dal NAFTA, da Trump considerato simbolo di una economia compromessa e condizionata dalla globalizzazione su scala continentale, da AMLO ritenuta (giustamente) una maniera di consegnare l’economia messicana al controllo statunitense alla quale il paese Azteca deve sottrarsi per non rimanere soffocato.

    L’eventuale vittoria della sinistra potrebbe quindi dare uno scossone anche sul piano continentale e, in particolare, nel rapporto nefasto con gli Stati Uniti. Che nel caso di una vittoria di Amlo vedrebbero la prima severa e fortemente simbolica sconfitta di Trump e, nel contempo, l’inizio della controffensiva della sinistra latinoamericana.

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