Le elezioni politiche e regionali del 4 marzo segnano la fine
del modello di centro-sinistra con cui abbiamo risposto alle destre dagli anni
’90 in poi. E’ questo il primo dato
inequivocabile che abbiamo di fronte. Anche volendo sommare tutte le liste di sinistra
e il Partito democratico non si arriva al 25 per cento. Perfino la vittoria
nella Regione Lazio appare più come l’ultimo baluardo di un mondo che non c’è
più che come il possibile punto da cui ripartire per tornare a vincere. Non
sfuggirà che quella vittoria, per giunta dimezzata dalla mancanza di una
maggioranza in consiglio regionale, è dovuta a una congiuntura particolarmente
favorevole (candidato presidente molto stimato, divisione nel centro destra)
che non facilmente si potrà ripetere. In questa vittoria, comunque, è stato
essenziale il nostro contributo, sia a livello programmatico che nella
definizione del perimetro della coalizione.
Tornando alle vicende nazionali, di sicuro questo risultato
rappresenta il punto più basso per la sinistra italiana nella storia della
Repubblica. Bisogna prenderne atto. Se il Pd crolla trascinato da un leader
supponente e da una classe dirigente incapace di leggere la società, la
sinistra in questi anni è apparsa subalterna. Eppure viviamo in un Paese in cui
abbiamo, nell’ordine:
·
i livelli più alti di disoccupazione giovanile;
·
un orario di lavoro superiore alla media
europea;
·
l’età pensionabile che sfiora i 70 anni;
·
l’80 per cento delle pensioni che non superano i
1.000 euro;
·
una tassazione che aumenta le diseguaglianze;
·
un welfare che non si occupa dei minori e dei
senza-lavoro;
·
una precarizzazione che dal lavoro si estende al
sociale;
·
un servizio sanitario che non riesce più a
garantire il diritto alla salute.
L’elenco potrebbe continuare, ma anche solo questi parziali
punti ci indicano quanto bisogno ci sia di una forza che dia rappresentanza
politica ai deboli. La sinistra serve a questo.
A ribaltare, attraverso la lotta politica, i rapporti di forza creati
dalla società capitalistica. Se la sinistra non assolve a questa funzione
diventa un corpo estraneo. Questo è quanto è avvenuto non solo nel nostro
paese, ma a livello Europeo: le forze che si ispirano al socialismo hanno
finito per cercare soltanto di limitare i danni delle politiche liberiste.
In questo quadro la nostra lista di Liberi e Uguali si è
presentata agli elettori in ritardo, con i nove mesi di insensata rincorsa a
Pisapia sul groppone, ma ha comunque generato grande interesse e attese.
All’Atlantico si respirava un’aria nuova, c’era entusiasmo genuino. Da lì
bisognava ripartire, puntando tutto sulla costruzione immediata di una rete sui
territori a cui affidare, con una regia nazionale, le scelte più rilevanti a
partire dalle candidature. Si è preferito una centralizzazione burocratica che,
in molti casi, ha prodotto scelte difficilmente comprensibili. Una serie di
assemblee-teatro (quella sul programma in cui è stato presentato il programma,
solo per ricordarne una) hanno generato sconcerto e delusione. Per non parlare
della formazione delle liste. Così ci siamo presentati ai blocchi di partenza
della campagna elettorale.
E qui abbiamo puntato su due aspetti: da un lato Liberi e
Uguali ha motivato la sua funzione costitutiva nel recupero di un consenso in
uscita dal Pd, dall’altro ci siamo fatti intrappolare in un dibattito astruso
sulle alleanza future. Il tema delle
alleanze non va dimenticato, ci mancherebbe, ma visto in un quadro di
costruzione della nuova forza politica e rafforzamento del nostro profilo
autonomo. Ci si allea sui programmi non per mero calcolo elettorale. In
buona sostanza ci siamo acconciati a svolgere una funzione suppletiva nei
confronti di un Pd proiettato verso il baratro e per di più privi di un
rinnovamento generazionale. Una contraddizione stridente con il nostro elettorato,
composto da molti giovani.
Per poi finire negli ultimi giorni decisivi per il voto
intrappolati nel reticolato ben disposto dai media circa un nostro presunto
impegno a sostegno di un governo di larghe intese esteso alla destra per arrivare
al cambio della legge elettorale.
Poco sulle proposte, nulla sulle prospettive. Se escludiamo
la lodevole quanto simbolica proposta di giungere alla cancellazione delle
tasse universitarie, le stesse importanti indicazioni rivolte al Paese
nell’ultima parte della campagna elettorale, quali la riduzione dell’orario di
lavoro o la rimodulazione progressiva del sistema di tassazione, sono apparse
tardive e timide per finire nella totale incomprensione popolare.
Nonostante ciò - e pur
registrando un risultato deludente – più di un milione di italiani ci hanno
dato il loro consenso. Troppo poco per essere soddisfatti, senza dubbio. E’
l’ennesima prova che senza grandi ambizioni i risultati non arrivano. Abbiamo
parlato troppo del mondo che sta finendo, poco del mondo che viene, quasi per
niente di come vorremmo che fosse. Ora è il momento di cambiare marcia. Secondo
noi le condizioni per farlo sono:
1) Avvio
immediato di una fase costituente su due livelli che devono interagire. Intanto
bisogna partire dai territori, con la strutturazione di un partito radicato
nelle nostre città che torni non solo a parlare con quei ceti meno abbienti che
non riusciamo più a rappresentare, ma metta in atto azioni concrete che
rappresentino la società che vogliamo costruire. Le nostre sezioni devono
essere percepite non come luoghi della politica tradizionale ma come centri di
aggregazione. Allo stesso tempo occorre dare alla nostra azione quotidiana un
“cielo” un quadro valoriale e simbolico che ci porti di nuovo a immaginare una
società alternativa a quella capitalista. Va ricostruita su basi differenti una
sinistra europea che esca dall’inganno del liberismo e torni a osare. Il
contributo dell’Italia non può mancare in questo percorso.
2) La
definizione di regole democratiche sulla rappresentanza che non solo rendano
trasparenti i processi decisionali, ma consentano di selezionare una nuova
classe dirigente non per fedeltà, ma per capacità e competenze. Il rinnovamento
non è una questione anagrafica, ma di sostanza. Non possiamo avere ancora una
classe dirigente che ha sulle spalle una stagione costellata di errori e
sconfitte. Non si tratta di rottamare nessuno, ma tutti dobbiamo avere la
consapevolezza che un passo in avanti collettivo passa attraverso la
costruzione di gruppi dirigenti, dal territorio al livello nazionale che
abbiano lo sguardo rivolto al futuro e le spalle sgombre dai pesanti fardelli
della lotta politica recente.
3) La
definizione di una forma partito che non sia chiusa alle forze che hanno
lanciato Liberi e Uguali ma, al contrario, parli alle esperienze di base,
politiche, sindacali, associative e sociali che alle ultime elezioni non siamo
riusciti a coinvolgere. Non si tratta di sommare qualche altro zero virgola, ma
di dare un respiro differente al nostro progetto. Se davvero pensiamo che sia
necessaria una forza di sinistra nel nostro paese non può prescindere dai
movimenti di base che in questi anni si sono sostituiti alle forze politiche
tradizionali. Non si tratta di usare questa o quella esperienza come schermo e
nascondersi dietro ad essa. Vanno resi protagonisti della fase costituente.
Liberi e Uguali, insomma, non deve
finire. Serve un atto di generosità delle formazioni politiche di partenza che
si devono mettere in gioco davvero, aprendosi al confronto e rifiutando la
chiusura in fortini che, nel mondo reale, non esistono più.
Se vogliamo che la nostra storia non finisca il 4 marzo, se vogliamo
costruire la sinistra che serve all’Italia dobbiamo guardare al mondo che viene
e batterci per cambiarlo davvero.
Una sinistra che riparta dalla sua
vocazione costituzionale, che non si accontenta della testimonianza ma usa le
leve del governo per renderci davvero più Liberi e Uguali, rimuovendo gli ostacoli che impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
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