4 giugno 2018

Basta razzismo




Questo ragazzo si chiamava Sacko Soumali, 29 anni. Era originario del Mali. Ieri è stato ucciso a colpi di lupara a San Calogero, nella provincia di Vibo Valentia. In una prima versione dei fatti, ripresa da tutti i giornali, si era detto che il giovane era intento a rubare in una proprietà privata. Poi, è emerso che Sacko, insieme ad altri compagni, aveva trovato un riparo di fortuna in una casa abbandonata. Ma è emerso anche altro: Sacko Soumali era un attivista nel sindacato per la difesa dei diritti dei migranti. Con l'arrivo dell'estate, i campi del Mezzogiorno si popolano di giovani migranti. Raccolgono cocomeri, ciliege, pomodori e tutti quei frutti che riempiono le nostre tavole e ci danno refrigerio nella calura delle nostre estati. Gli orari di lavoro dei giovani migranti nei campi sono ai limiti dell'umano. Molti stramazzano, storditi. Le paghe sono rigorosamente a nero e misere. Sono stato per quindici anni consigliere comunale in Calabria, e per sette assessore con delega, tra l'altro, agli immigrati. Ogni anno, nelle attività culturali e di spettacolo, che avevo modo di organizzare durante l'estate a Polistena, nella piana di Gioia Tauro, una giornata era dedicata agli immigrati. Si stava insieme, c'era musica, si discuteva. Ricordo un giovane algerino con un evidente taglio cicatrizzato sulla guancia sinistra. Me lo indicò e mi raccontò come se l'era procurato. Aveva lavorato per settimane nei campi e non era stato pagato. Neppure 20 euro al giorno per dieci ore di lavoro in media. Era più volte andato a chiedere quanto gli spettava al "padrone" (è stato insegnato agli immigrati a usare ancora questa parola: "padrone"), fino a quando per tutta risposta "il padrone" non aveva deciso di lasciargli quel segno sulla guancia. Vicino a Polistena sorge Rosarno. Ebbi modo di visitare, prima che scoppiasse il caso dei migranti di Rosarno, un enorme capannone dismesso, dove si trovavano centinaia di ragazzi africani. Mi portò lì un mio amico africano e mi offrì qualcosa del loro cibo. In quel vasto capannone non c'erano muri divisori. In angoli diversi, c'era chi cucinava, chi faceva la doccia con l'acqua raccolta in bacinelle, chi pregava. Seppi delle ronde: ragazzi bianchi, con spranghe e sugli scooter, sfrecciavano lungo la statale, che attraversa Rosarno, dove la sera o la mattina camminano centinaia di immigrati, di ritorno dal lavoro o nella speranza che qualcuno li avvicini per chiamarli a lavorare, e con quelle spranghe colpivano chiunque si trovasse a tiro. Quella mia visita, sia pure anonima, non passò inosservata. Mi giunse voce, un giorno, che la mia presenza a Rosarno non era gradita a qualcuno e che facevo bene a rimanere a Polistena, dove qualcun altro aveva comunque deciso di non concedere l'autorizzazione a colpirmi. Già, perché in Calabria tutto viene autorizzato dai capi dei singoli territori!
Chi ha avuto modo di parlare e ascoltare i giovani immigrati, chi ha avuto il privilegio di ottenerne la fiducia e la stima, chi ha imparato a vedere con i loro occhi, chi ne ha sentito i battiti dei loro cuori, difficilmente dimenticherà i loro sogni, le loro paure, i loro entusiasmi, le cocenti delusioni, che bruciano e fanno male. Perché loro credono nell'Italia, forse più di quanto ci crediamo noi. Addio, Sacko! Che la terra ti sia lieve. E da lassù, perdona se puoi.

Massimo Frana

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