Nei
suoi possedimenti di coltivazione di tabacco de l’Inviolata, una ventina di
anni fa, la Marchesa de Luna (interpretata da Nicoletta Braschi), teneva una
cinquantina di contadini - li chiamava ancora “mezzadri” - in condizione di semi-schiavitù.
Lontani dal mondo e dai media, senza
alcuna istruzione, sempre in debito con lei, la Marchesa faceva credere ai
“sequestrati” di essere padrona anche delle loro vite. Suo figlio Tancredi
(interpretato da giovane da Luca Chikovani), allampanato e stravagante, vorrebbe
ribellarsi ed emanciparsi da lei e cerca un alleato nell’ingenuo contadino
Lazzaro (interpretato da Adriano Tardiolo).
Questi
ha un cuore d’oro, con un sorriso serafico, aiuta tutti coloro che glielo
chiedono e, proprio per questo, viene facilmente sfruttato, anche da parte
degli altri lavoratori. Non ha genitori, non sa di chi sia figlio, ma ha una
nonna e vive nella comunità dei contadini, stipati uno sull’altro in due camere
e senza lampadine. Il ragioniere contabile (interpretato da Natalino Balasso) che
riscuote i prodotti agricoli (tabacco, capponi, uova ecc.) per conto della
Marchesa, ha una figlia che vorrebbe si fidanzasse con il marchesino.
Una
serie di vicende legherà Tancredi e Lazzaro in una strana, ma leale, amicizia. Lazzaro,
febbricitante per aver preso troppa pioggia, per andare ad occuparsi di
Tancredi, avrà un incidente e cadrà da un dirupo. Si risveglierà parecchio
tempo dopo (vent’anni?) e non troverà più nessuno. Infatti durante la sua
caduta, erano arrivati i carabinieri per cercare Tancredi supposto rapito, così
avevano scoperto in quale situazione indegna e malsana vivessero tutte queste
persone, le avevano salvate e portate via. La Marchesa era stata quindi incriminata
per tutta una serie di reati che l’avevano portata sulle prime pagine dei
giornali per aver perpetuato “un grande inganno”.
Così
Lazzaro, salvatosi miracolosamente (e da cui si capisce il nome), comincerà a
vagare in cerca di Tancredi e raggiungere la città. Incontrerà, guarda caso,
Antonia (Alba Rohrwacher) e alcuni altri membri della sua famiglia, tutti homeless – ecco come viene conquistata
la libertà! - che bivaccano nella periferia degradata milanese, vicino allo scalo
merci ferroviario e vivono di espedienti rubacchiando qua e là.
Antonia
lo riconosce subito e lo accoglie a braccia aperte, mentre gli altri lo
scansano pensando sia un fantasma - «I fantasmi non hanno fame»
dice la vecchia nonna – o convinti che porti sfortuna. Lazzaro ricomincia a
vivere con loro e riconoscerà alcune erbe commestibili, nate spontaneamente nel
degrado urbano, e si metteranno tutti insieme a raccoglierle iniziando un nuovo
business, come un riferimento a “Miracolo
a Milano” di Vittorio De Sca del 1951.
Un
giorno in città rincontrerà Tancredi (interpretato da adulto da Tommaso Ragno) cresciuto
e invecchiato con il suo cagnolino Ercole, lo porterà nel loro tugurio e in
cambio lui inviterà tutti per un pranzo il giorno dopo. Ma quando tutti i
senzatetto e gli ex contadini arriveranno a casa sua, scopriranno che anche lui
muore di fame ed è senza una lira, perché le banche gli hanno portato via ogni bene.
Vorrei evitare di raccontare il finale, che è comunque prevedibile, che
costituisce un di più sulla vicenda umana e sociale dei suoi protagonisti.
La
metafora del lupo buono, solo e anziano, allontanato dal gruppo, e di cui
l’uomo nonostante tutto ha paura, si intreccia con la storia dei cinquantaquattro
contadini.
Le
storie narrate da Alice Rohrwacher sono sempre un po’ bucoliche, in questo caso
si è ispirata a un libro per bambini di Chiara Frugoni. I suoi film mostrano un
sociale sommerso, persone spesso sotto la soglia di povertà che fanno mestieri
improbabili, spesso arrangiandosi. Talvolta si difendono da un mondo “altro”,
come il padre delle quattro sorelline in Le
meraviglie. Da un lato la regista demitizza l’arcadia perduta, dall’altro
presenta un’alternativa disperante che forse è anche peggiore. La sua sembrerebbe
essere una vera e propria ideologia anti-urbana. Se solo il bene vincesse sul
male, almeno una volta!
Il
linguaggio che la regista usa, qui molto più maturo de Le meraviglie del 2014, è tra il verismo e il simbolico. Le vedute
del paesaggio agreste sembrano uscite dai quadri dei macchiaioli toscani mentre
la città, nonostante sia Milano o un’altra città del nord, sembra uscita da un
quadro di Vespignani. Il simbolico surreale invece è da riscontrarsi più nella
storia che nel linguaggio figurativo. La regista intervistata ha dichiarato di
ispirarsi a Ermanno Olmi e ai fratelli Taviani, probabilmente per
l’avvicendarsi delle stagioni sul paesaggio naturale e sulla presenza materica
della roccia.
Il
film, a mio avviso, va visto se non altro perché fa riflettere sulle condizioni
degli emarginati, che oggi sembrerebbero essere una prerogativa degli immigrati
o dei Rom (vedi ad esempio il recente “A
Ciambra” di Jonas Carpignano).
Le
musiche sono scelte con cura: ad esempio la contrapposizione tra l’elegante “Preludio
n. VIII” di Bach per clavicembalo, stride volutamente con le immagini di
povertà dei senzatetto. Bravi gli attori, specialmente l’attonito Adriano
Tardiolo e la truffaldina Alba Rohrwacher. Presentato al Festival di Cannes di quest’anno,
il film ha ottenuto il premio per la migliore sceneggiatura.
Ghisi
Grütter
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