2 giugno 2018

Recensione film: LAZZARO FELICE, regia di Alice Rohrwacher

Con Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Sergi Lopez, Natalino Balasso, Nicoletta Braschi, Gala Othero Winter, Italia 2018. Fotografia di Hélène Louvart, musiche Piero Crucitti, montaggio Nelly Quettier.

 



 
Nei suoi possedimenti di coltivazione di tabacco de l’Inviolata, una ventina di anni fa, la Marchesa de Luna (interpretata da Nicoletta Braschi), teneva una cinquantina di contadini - li chiamava ancora “mezzadri” - in condizione di semi-schiavitù. Lontani dal mondo e dai media, senza alcuna istruzione, sempre in debito con lei, la Marchesa faceva credere ai “sequestrati” di essere padrona anche delle loro vite. Suo figlio Tancredi (interpretato da giovane da Luca Chikovani), allampanato e stravagante, vorrebbe ribellarsi ed emanciparsi da lei e cerca un alleato nell’ingenuo contadino Lazzaro (interpretato da Adriano Tardiolo).
Questi ha un cuore d’oro, con un sorriso serafico, aiuta tutti coloro che glielo chiedono e, proprio per questo, viene facilmente sfruttato, anche da parte degli altri lavoratori. Non ha genitori, non sa di chi sia figlio, ma ha una nonna e vive nella comunità dei contadini, stipati uno sull’altro in due camere e senza lampadine. Il ragioniere contabile (interpretato da Natalino Balasso) che riscuote i prodotti agricoli (tabacco, capponi, uova ecc.) per conto della Marchesa, ha una figlia che vorrebbe si fidanzasse con il marchesino.
Una serie di vicende legherà Tancredi e Lazzaro in una strana, ma leale, amicizia. Lazzaro, febbricitante per aver preso troppa pioggia, per andare ad occuparsi di Tancredi, avrà un incidente e cadrà da un dirupo. Si risveglierà parecchio tempo dopo (vent’anni?) e non troverà più nessuno. Infatti durante la sua caduta, erano arrivati i carabinieri per cercare Tancredi supposto rapito, così avevano scoperto in quale situazione indegna e malsana vivessero tutte queste persone, le avevano salvate e portate via. La Marchesa era stata quindi incriminata per tutta una serie di reati che l’avevano portata sulle prime pagine dei giornali per aver perpetuato “un grande inganno”.
Così Lazzaro, salvatosi miracolosamente (e da cui si capisce il nome), comincerà a vagare in cerca di Tancredi e raggiungere la città. Incontrerà, guarda caso, Antonia (Alba Rohrwacher) e alcuni altri membri della sua famiglia, tutti homeless – ecco come viene conquistata la libertà! - che bivaccano nella periferia degradata milanese, vicino allo scalo merci ferroviario e vivono di espedienti rubacchiando qua e là.
Antonia lo riconosce subito e lo accoglie a braccia aperte, mentre gli altri lo scansano pensando sia un fantasma - «I fantasmi non hanno fame» dice la vecchia nonna – o convinti che porti sfortuna. Lazzaro ricomincia a vivere con loro e riconoscerà alcune erbe commestibili, nate spontaneamente nel degrado urbano, e si metteranno tutti insieme a raccoglierle iniziando un nuovo business, come un riferimento a  Miracolo a Milano” di Vittorio De Sca del 1951.
Un giorno in città rincontrerà Tancredi (interpretato da adulto da Tommaso Ragno) cresciuto e invecchiato con il suo cagnolino Ercole, lo porterà nel loro tugurio e in cambio lui inviterà tutti per un pranzo il giorno dopo. Ma quando tutti i senzatetto e gli ex contadini arriveranno a casa sua, scopriranno che anche lui muore di fame ed è senza una lira, perché le banche gli hanno portato via ogni bene. Vorrei evitare di raccontare il finale, che è comunque prevedibile, che costituisce un di più sulla vicenda umana e sociale dei suoi protagonisti.
La metafora del lupo buono, solo e anziano, allontanato dal gruppo, e di cui l’uomo nonostante tutto ha paura, si intreccia con la storia dei cinquantaquattro contadini.
Le storie narrate da Alice Rohrwacher sono sempre un po’ bucoliche, in questo caso si è ispirata a un libro per bambini di Chiara Frugoni. I suoi film mostrano un sociale sommerso, persone spesso sotto la soglia di povertà che fanno mestieri improbabili, spesso arrangiandosi. Talvolta si difendono da un mondo “altro”, come il padre delle quattro sorelline in Le meraviglie. Da un lato la regista demitizza l’arcadia perduta, dall’altro presenta un’alternativa disperante che forse è anche peggiore. La sua sembrerebbe essere una vera e propria ideologia anti-urbana. Se solo il bene vincesse sul male, almeno una volta!
Il linguaggio che la regista usa, qui molto più maturo de Le meraviglie del 2014, è tra il verismo e il simbolico. Le vedute del paesaggio agreste sembrano uscite dai quadri dei macchiaioli toscani mentre la città, nonostante sia Milano o un’altra città del nord, sembra uscita da un quadro di Vespignani. Il simbolico surreale invece è da riscontrarsi più nella storia che nel linguaggio figurativo. La regista intervistata ha dichiarato di ispirarsi a Ermanno Olmi e ai fratelli Taviani, probabilmente per l’avvicendarsi delle stagioni sul paesaggio naturale e sulla presenza materica della roccia.
Il film, a mio avviso, va visto se non altro perché fa riflettere sulle condizioni degli emarginati, che oggi sembrerebbero essere una prerogativa degli immigrati o dei Rom (vedi ad esempio il recente “A Ciambra” di Jonas Carpignano).
Le musiche sono scelte con cura: ad esempio la contrapposizione tra l’elegante “Preludio n. VIII” di Bach per clavicembalo, stride volutamente con le immagini di povertà dei senzatetto. Bravi gli attori, specialmente l’attonito Adriano Tardiolo e la truffaldina Alba Rohrwacher. Presentato al Festival di Cannes di quest’anno, il film ha ottenuto il premio per la migliore sceneggiatura.
 

 

Ghisi Grütter

 

 

Nessun commento:

Posta un commento