28 gennaio 2018

Recensione film: CHIAMAMI COL TUO NOME regia di Luca Guadagnino

Con Thimothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel, Victoire Du Bois, 132”, Italia, Francia, Brasile, USA 2107. Scenografia di Samuel Deshors, interni di Violante Visconti di Mandrone. Musiche di Sufjan Stevens.

 



 

I turbamenti del giovane Törless

Preceduto da una critica eccessivamente entusiastica – probabilmente per la nazionalità italiana del regista – Chiamami con il tuo nome, il film di Luca Guadagnino già presentato al Festival di Berlino 2017, mi ha leggermente deluso.

Siamo nel 1983, nella villa di campagna della famiglia del Professore di Archeologia Perlman (Michael Stuhlbarg), in provincia di Crema. Lì passano le estati moglie (Amira Casar), marito e Elio (Thimothée Chalamet), il figlio diciassettenne, ospitando ogni anno un diverso e meritevole dottorando. Quest’anno è la volta di Oliver (Armie Hammer), un aitante ventiquattrenne studente statunitense del New England. L’ambiente è quello di una benestante famiglia borghese ebrea e intellettuale, dove si parlano diverse lingue con disinvoltura, si legge Eraclito, si discute degli etimi delle parole, si leggono poesie e si suona Bach al pianoforte.

Attraverso lo sguardo di Elio, la prima parte del film, piuttosto bella e intensa, trasmette quei tormenti adolescenziali e problemi di crescita che tutti noi abbiamo provato in forme più o meno acute: invidie, gelosie e insicurezze, contrapposte ad atteggiamenti ostentatamente da adulti, come ad esempio un modo spavaldo di fumare e di tenere la sigaretta in mano. Tutte emozioni e sensazioni ben trasmesse dal bravissimo protagonista.

Per due terzi il film si vede volentieri: gli spazi del villone un po’ dégagé ereditato dalla madre, le corse in bicicletta nella piatta piana padana, le estive colazioni all’aperto sotto gli alberi da frutta e i bagni nel fiume o nel lago, fanno pensare un po’ al Giardino dei Finzi Contini (De Sica 1970) e un po’ a Io ballo da sola (Bertolucci 1996). Per la tematica trattata una cattivissima amica mi ha suggerito perfino Il tempo delle mele (Pinoteau 1980)!

Meno intensa è proprio la parte in cui il desiderio diventa realtà, la passione vissuta sembra un po’ scontata, le gite in montagna vicino Clusone, e le scene urbane serali nella provincia di Bergamo, del tutto gratuite.

A parte Elio, gli altri personaggi - e i rispettivi interpreti - sono tutti un po’ fuori posto. I genitori sono molto poco credibili come personaggi e anche poco centrati fisicamente, specialmente il padre. Neppure Oliver è del tutto convincente, poco statuario per essere considerato una bellezza classica (uno stampellone con gambe troppo secche e troppo lunghe) e troppo poco ambiguo. Gli altri ospiti dei Perlman sono tratteggiati al limite del grottesco, come la vecchia coppia gay un po’ caricata, ma anche la coppia eterosessuale di intellettuali che straparlano del pentapartito a guida socialista e della morte di Buñuel. Inserito lì alla TV il comico Beppe Grillo che fa il verso a Craxi. Un po’ forzata è anche la partita a carte di Oliver nel bar provinciale del borgo cremasco.

Qua e là qualche piccola sbavatura del montaggio come un pezzo di musica tagliata un po’ bruscamente per un cambio di scena o la vista delle curve di montagna nel bergamasco, che sembrerebbero erroneamente esser percorse in pullman.

Chiamami con il tuo nome è un film edonista che vorrebbe essere un tributo ai vari illustri maestri cui guarda Guadagnino: Bertolucci, Rohmer, Renoir, Visconti. La sceneggiatura, tratta dal romanzo di André Aciman, Guadagnino l’ha scritta con James Ivory e Walter Fasano. La villa, di cui si è scritto molto, è Palazzo Albergoni a Moscazzano ed è stata arredata da Violante Visconti di Mandrone con attenzione in modo sobrio denotante più storia e cultura che ricchezza e status sociale. Varie riprese del borgo cremasco e della villa con le finestre spalancate e le porte aperte, ricordano alcune immagini di Luigi Ghirri, il poetico fotografo emiliano.

Il film probabilmente piacerà più agli americani sempre in cerca di stereotipi italiani. Mi chiedo però se non fosse stato meglio per rappresentare l’Italia, mostrare le bellezze di un territorio umbro o marchigiano (per non volere abusare della regione toscana) invece della pianura padana lombarda.

 

 

Ghisi Grütter

 

 

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